Le aquile della steppa
Eroismo, amore e intrigo fra le steppe del Turkestan




 

Qualche tempo fa, su questo stesso sito, ho indugiato su una ricca e varia sezione della vastissima produzione narrativa salgariana, all’interno della quale può essere correttamente identificato un folto gruppo di romanzi d’Africa (non meno di una decina, cui sono da aggiungersi innumerevoli racconti).[1] Meno numeroso di quello “d’Africa”, ma ugualmente assai significativo è il gruppo dei romanzi ambientati, in tutto o in parte, nell’immenso territorio russo, che comprendono Gli orrori della Siberia (Genova, Donath, 1900), I figli dell’aria (Genova, Donath, 1904) e Il «Re dell’aria» (Firenze, Bemporad, 1907: questi ultimi due, a loro volta, costituiscono il “ciclo dell’aria” o “degli esploratori dell’infinito”), nonché (anche se integralmente ambientato in Giappone, pur ai tempi della guerra russo-giapponese) L’eroina di Port-Arthur (con lo pseudonimo di cap. Guido Altieri, Torino, Speirani, 1904). Di questo gruppo fa parte anche Le Aquile della steppa (Genova, Donath, 1907), del quale si discorrerà brevemente in questa sede.

Come sempre, a questi romanzi vanno aggiunti alcuni racconti, pubblicati, con lo pseudonimo di capitano Guido Altieri, fra il 1901 e il 1906 (quando, cioè, Salgari era legato a un contratto di esclusiva con Antonio Donath), nella «Bibliotechina Aurea Illustrata» dell’editore Biondo di Palermo, racconti la cui azione ha luogo in Russia e, in particolare, in Siberia. Ivi, infatti, vengono ambientate tre narrazioni che costituiscono una sorta di piccolo “ciclo” siberiano, in quanto si immagina che esse siano state riferite allo scrittore stesso dalla viva voce di Papà Roskoff, vecchio e ruvido “ostiako” cacciatore di lupi, di orsi, di foche in quel terreno gelido e inospitale: si tratta dei nn. 91, I cacciatori di lupi; 83, Un’avventura in Siberia; e 87, Fra i ghiacci del Polo Artico, ai quali è da aggiungersi, per la comunanza di tematiche e di ambientazione, il n. 126 della stessa «Bibliotechina Aurea Illustrata», Le valanghe degli Urali.[2]

Ma veniamo al nostro romanzo. Le Aquile della steppa fu pubblicato dapprima in 33 puntate sul periodico «Per Terra e per Mare», diretto dallo stesso Salgari, fra il 1905 ed il 1906, e quindi, nel 1907, come si è or ora detto, in volume a Genova, da Antonio Donath.[3]

Il romanzo, che si svolge fra le steppe del Turkestan, introduce la fiera e potente figura del vecchio beg Giah Aghà, indomito capo della bellicosa e valorosa tribù dei Sarti, una popolazione di etnia bukara. Il nipote prediletto del beg, Hossein, sta per sposare la bellissima principessa Talmà e si appresta a sostituirlo al comando della tribù. Ma la presenza, nei dintorni, delle famigerate e temibili «Aquile della steppa» crea non poche preoccupazioni. Si tratta infatti di un gruppo di feroci predoni appartenenti al selvaggio popolo nomade dei kirghisi, che, con un inaspettato attacco sferrato ai Sarti, rapiscono Talmà. Dietro questo rapimento si cela, però, la losca figura di Abei Dullah, cugino di Hossein, da sempre innamorato anch’egli della bellissima fanciulla, geloso del più fortunato rivale e deciso a togliergli non solo la fidanzata ma anche l’ascendente che egli esercita nei confronti del vecchio Giah Aghà. Hossein, insieme al fedele Tabriz (un ennesimo servo dalle forme erculee, come Moko ne Il Corsaro nero o Rocco ne I predoni del Sahara) e a cinquanta uomini, armati di fucili, pistole e corte scimitarre (i kangiarri), si pone quindi decisamente all’inseguimento delle «Aquile della steppa», a tutto risoluto pur di liberare la sua amata. Ma il percorso è, come sempre, irto di difficoltà e di ostacoli di ogni sorta, ai quali si aggiunge la presenza dell’infido Abei che, solo apparentemente, aiuta Hossein nell’impresa, mentre di nascosto continua a tessere i suoi infami disegni. Sulla loro strada, Hossein e i suoi incontrano infatti le truppe russe del generale Abramow che, dopo aver espugnato e conquistato la mitica Samarcanda, stanno dirigendosi verso Kitab, la città nella quale assai probabilmente le «Aquile della steppa» hanno condotto la bella Talmà. Durante un violento combattimento contro i cosacchi, Abei, che ha continuato nel suo sporco doppio gioco, spara a tradimento a Tabriz e al cugino, lasciandoli, l’uno ferito e l’altro agonizzante, in mani russe. Ma la situazione, dopo varie altre mirabolanti avventure, si capovolge a favore di Hossein. L’ultimo tradimento di Abei, volto a sopprimere definitivamente il cugino, svela finalmente le sue oscure trame agli occhi di tutti. E così il vecchio Giah Aghà, di persona, compie il suo atto di giustizia uccidendo il perfido nipote Abei (così come il vecchio capo cosacco Taras Bulba aveva giustiziato di persona il figlio traditore, nel romanzo di Gogol), mentre Hossein può, al termine della narrazione (e in un canonico lieto fine), impalmare la sua amata Talmà.

Il romanzo, di lettura avvincente per i continui colpi di scena, i frequenti cambiamenti di luogo, il rapido turbinio delle azioni che si susseguono a ritmo incalzante, è imperniato, fra l’altro, su uno schema narratologico che ricorre a più riprese nella produzione romanzesca di Salgari, e cioè la rivalità fra due uomini (in genere uno buono e leale, l’altro vile e malvagio) per la stessa donna (qui, rispettivamente, Hossein e Abei), rivalità che si conclude, di norma, con la vittoria del buono e generoso sullo sleale e malvagio. Ricordo qui, a mo’ di esempi, l’antagonismo fra l’eroico Nadir e lo Scià di Persia per la mano della bella Fathima, ne Il re della montagna (Torino, Speirani, 1895); quello fra José Blancos e Tay-Shung per Tay-See, ne La Rosa del Dong-Giang (Livorno, Belforte, 1897); il lungo contrasto che oppone il generoso Piotre e il vile Alonzo per la bella Mariquita (detta la “Stella dell’Araucania”), appunto ne La Stella dell’Araucania (Firenze, Bemporad, 1906); la rivalità fra Michele Cernazé conte di Sawa e il crudele Maresciallo comandante del Bled algerino per la bellissima Afza, in Sull’Atlante (Firenze, Bemporad, 1907); soprattutto la lunga contesa e l’odio irriducibile che oppongono i due fratellastri William Mac Lellan ed il Marchese di Halifax per Mary di Wentwort nei tre romanzi appartenenti all’ultimo dei cicli salgariani, quello delle Bermude (I corsari delle Bermude, Firenze, Bemporad, 1909; La crociera della «Tuonante», ivi, 1910; Straordinarie avventure di Testa di Pietra, ivi, 1915, pubbl. postumo); e infine l’antagonismo fra lo statunitense Torpon e il canadese Montcalm per la bellissima, cinica e disinibita miss Ellen Perkins, in Una sfida al Polo (Firenze, Bemporad, 1909), anche se in quest’ultimo caso nessuno dei due contendenti, alla fine del romanzo, prenderà la mano della donna, poiché ella, per il suo comportamento e la sua spregiudicatezza, si rivela indegna del vincitore (che comunque è pur sempre il più leale e nobile fra i due).[4]

Un altro elemento degno di essere messo in risalto, ne Le Aquile della steppa, è poi il ricorso, da parte dell’ormai espertissimo e smaliziato quarantacinquenne scrittore, alla moderna tecnica del flashback, già sperimentata con successo, d’altra parte, un decennio prima, nell’attraente e poco noto Il capitano della «Djumna» (Genova, Donath, 1897).

Ma il fascino nascosto del romanzo non consiste soltanto in questi elementi. Come è stato giustamente affermato da Giuseppe Cantarosa, «la desolante monotonia della steppa è vivacizzata dalle accentuate differenze razziali dei vari gruppi etnici, dalle passioni che divorano gli uomini rotti a ogni guerra, dalla varietà di specie del regno animale: falchi, sparvieri, cammelli, montoni, ghepardi, orsi e leoni. Mentre il burana, paragonabile al simun del Sahara, un vento violento e ardente, spazza gli accampamenti e travolge gli uomini delle carovane che attraversano quelle lande desolate. L’ambiente ostile rappresenta anche una terra incantata per quanti amano raccontare e ascoltare leggende e racconti, dove i mestvires, sorta di menestrelli, con la loro guzla, chitarra dal manico lunghissimo e con le corde di seta, venivano radunati in occasione dei banchetti nuziali per raccontare storie e leggende. Forse tra le rovine e i resti dell’antica colonizzazione persiana – scrive un Salgari imbevuto di cultura orientale – è possibile rintracciare “il vero paese della terra sacra dei magi di Zoroastro, del Zend-Avesta, il paese dove Saadi e Hfar hanno poetato ed amato dove Leilah ha sorriso”».[5]



Armando Bisanti



NOTE:

[1] A. Bisanti, Su alcuni “romanzi d’Africa” di Emilio Salgari (2008), on-line sul sito www.emiliosalgari.it.

[2] Cfr. E. Salgari, Un’avventura in Siberia, a cura di A. Niero, con una introd. di F. Pozzo, Roma, Voland, 1996.

[3] Sulla figura del celebre editore salgariano (ma non solo), cfr. F. Pozzo, L’officina segreta di Emilio Salgari, Vercelli, Mercurio, 2006, pp. 165-173.

[4] Su questo romanzo mi sono intrattenuto in un paio di interventi: cfr. A. Bisanti, Il ritorno di Emilio Salgari, in «Critica Letteraria» 32,2 (2004), pp. 363-397; Id., «Una sfida al Polo». Salgari e il mito moderno dell’automobile (2009), on-line sul sito www.emiliosalgari.it.

[5] G. Cantarosa, Passioni e intrighi nella selvaggia steppa, in E. Salgari, Le Aquile della steppa, Milano, Fabbri, 2003, p. 6. Sul romanzo, cfr. anche A. Bisanti, Scene di fanatismo in alcuni romanzi salgariani, on-line in Ricchezza di Emilio Salgari, numero monografico di «Belphegor» 5 ,2 (2006: in partic. il cap. 5, I fanatici del Turkestan, che ho qui parzialmente ripreso).


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