Alla ricerca delle città perdute



La Manoa degli incas e la Angkor Thom dei khmer al centro di due romanzi con molti punti in comune, malgrado l’ambientazione in continenti diversi.

Il termine “città” ricorre in due soli romanzi di Salgari: La Città dell’Oro, pubblicato prima a puntate e poi in volume nel 1898, e La Città del Re lebbroso, del 1904: il primo romanzo ambientato nel Venezuela dell’Alto Orinoco, il secondo tra Siam (odierna Thailandia) e Cambogia. In entrambi vi è narrata la ricerca per motivi diversi, da parte di un pugno di ardimentosi, di due città “perdute”: la Manoa degli incas e la Angkor Thom (Ongkor-tom per Salgari) dei khmer. Va detto che il fascino di questi romanzi non sta tanto nella conclusione, e neppure nei personaggi, che non brillano di particolare “carisma”, quanto nella ricerca stessa, che dà il destro a Salgari di sfoderare tutto il suo arsenale di imprevisti, pericoli, tradimenti, agguati atti a vivacizzare il racconto, e la sua capacità descrittiva degli stupendi e misteriosi paesaggi esotici: la foresta amazzonica e la “savana tremante” nel primo, la giungla e la “foresta umida” nel secondo.
Oltre agli elementi già ricordati, ve ne sono altri a suggerire questo “gemellaggio” dei due romanzi. Come l’episodio iniziale che vede i personaggi “positivi”, mentre concertano il viaggio, spiati dai uomini interessati a che essi non raggiungano la meta. Entrambe le spedizioni sono infatti messe a dura prova, più che dagli ostacoli posti dalla lussureggiante vegetazione pullulante di rettili e di bestie feroci, soprattutto da questi subdoli nemici che comunicano tra loro con appositi segnali. Non solo: in tutti e due il percorso si svolge, almeno nella prima parte, per via fluviale: l’Orinoco e il Me-Nam.
E ancora: tra gli audaci cercatori delle città perdute Salgari inserisce la figura di un medico: nella Città dell’Oro il dottor Velasco, specie di enciclopedia vivente sempre pronta a istruire il giovane e inesperto Alonzo; e nella Città de Re lebbroso l’italiano Roberto Galeno, il quale invece apprende le varie nozioni sul Paese che stanno attraversando dal nobile Lakon-tay. Sono poi frequentissime, nei romanzi di cui si parla, le scene di caccia per procurarsi il cibo durante la lunga e faticosa marcia.
Ed ora esaminiamo in cosa essi si differenziano.
Sete di vendetta, brama di ricchezza, spirito di conoscenza e di avventura, sono le tre molle che, nella Città dell’Oro, determinano don Raffaele e i suoi compagni ad affrontare le incognite e i pericoli della foresta amazzonica per rintracciare l’Eldorado degli spagnoli. Tra parentesi, questo romanzo riecheggia per argomento – la ricerca di un tesoro – il giovanile Duemila leghe sotto l’America, il cui esito però è tragico: dei buoni e cattivi, infatti, nessuno sopravvive. L’”oro degli inchi” si è rivelato fatale per tutti, è il monito dell’autore.
Il motivo, invece, che attira Roberto e gli altri verso la leggendaria Città del Re lebbroso è il possesso di un prezioso talismano celato tra le sue rovine: il driving-kuk, ossia il sacro uncino per elefanti, che attirando i rarissimi pachidermi bianchi, assicura al Siam la protezione celeste ed è necessario a Lakon-tay per riabilitarsi presso il re.
Se nell’altro romanzo la favolosa Manoa sfavillante d’oro può essere solo contemplata da lontano (come per Salgari il miraggio di un benessere economico), in questo invece i protagonisti riescono, dopo mille peripezie, a metter piede nelle rovine dell’antica capitale dell’impero khmer, e quindi a rintracciare il sospirato oggetto dei loro desideri.
Altra differenza: La Città dell’Oro è avventura tutta al maschile, mentre nella Città del Re lebbroso è piaciuto a Salgari inserire un personaggio femminile: è Len-Pra, la figlia di Lakon tay, provetta cacciatrice tutt’altro che insensibile alla corte del dottor Roberto.
Ma è tempo ormai di sentire dallo scrittore stesso la descrizione di queste città perdute. Oltremodo stringata, visione fantastica più che reale, è quella che si riferisce a Manoa:

A mezzodì [don Raffaele, Alonzo e il dottor Velasco] toccavano la vetta della montagna.
Yopi s’arrestò e tese un braccio verso l’est dicendo: – Guardate: ecco la Città dell’Oro, ecco Manoa!...
I tre uomini bianchi si erano precipitati innanzi: là, in mezzo ad una vallata racchiusa da immensa rocce tagliate a picco, appariva una grande città i cui tetti d’oro e le cui colonne dorate scintillavano sotto i raggi del sole.
Un grido di meraviglia, di stupore, irruppe dalle loro labbra. Fecero atto di slanciarsi innanzi, ma Yopi con un gesto energico li arrestò e additando a loro la savana tremante, le cui acque bagnavano la base della montagna, disse con voce quasi minacciosa: – Ed ora partite e non ritornate più mai!...


Ed ora trasferiamoci ad Angkor Thom, scenario degli ultimi drammatici ed emozionanti avvenimenti del secondo romanzo. Il brano riportato qui di seguito rispecchia la profonda suggestione che Salgari aveva potuto ricevere da qualche testo illustrato da lui consultato: forse il Voyage dans les royaumes de Siam, de Cambodge, de Laos di Henri Mouthot pubblicato nel 1861 e ricco di pregevoli disegni?

Quale spazio occupasse, lo si può facilmente capire dalla infinita quantità di rovine che sono disseminate fra le boscaglie per miglia e miglia; quale magnificenza avesse raggiunto lo si può giudicare dalle pagode colossali e dai suoi palazzi meravigliosi, che ancora sussistono, quantunque debbano aver sopportate le ingiurie del tempo per diecine di secoli.
Sono così imponenti quelle rovine, e quegli avanzi, e sono frutto d’un lavoro così prodigioso, che alla loro vista si rimane compresi dalla più profonda ammirazione e non si può fare a meno di chiedersi, che cosa mai può essere avvenuto d’un popolo così possente, incivilito ed illuminato, che era riuscito ad innalzare monumenti così grandiosi, che superano per mole, per linee architettoniche, per fregi meravigliosi, i più bei monumenti lasciati dai greci, dai romani e dagli stessi egizi.
Il tempo, i terremoti, i barbari, provenienti forse dal cuore della Cina e dal Siam, fors’anche dal Tonchino, hanno rovinato gran parte di quella opulenta capitale; pure rimangono ancora in piedi cinte, palazzi e pagode, ad attestare il genio meraviglioso degli architetti dell’augusto regno di Maha-Nokhor-Khmer. Le mura che dovevano difendere la parte centrale della città, abitata dai re, s’ergono ancora, prolungandosi per ben ventiquattro miglia, con uno spessore di tre metri e ottanta centimetri e un’altezza di sette, con quattro porte magnifiche, che s’aprono verso i quattro punti cardinali.
Entro quella vasta cinta, ormai coperta d’alberi, di cespugli e d’ammassi di piante parassite, s’innalza un grande numero di monumenti d’una grandiosità stupefacente, tutti più o meno rovinati e che a poco a poco continuano a sgretolarsi; ma nel centro si erge ancora superbo e abbastanza conservato, l’antico palazzo reale, difeso da tre mura staccate le une dalle altre e circondate ognuna da un profondo fossato e difese da torri colossali ed abbellite da archi trionfali che le uniscono.
Sarebbe impossibile descrivere la bellezza meravigliosa di quel palazzo, costruito tutto in marmo, con colonne innumerevoli, terrazze gigantesche, sale immense e che verso il centro si eleva gradatamente, formando una torre colossale a più piani, coi tetti arcuati e dorati, con statue, con massi scolpiti stupendamente, con frontoni d’una finezza stupefacente.
Su tutte le facciate vi si vedono numerose iscrizioni, in una lingua che tutti ignorano e che perfino i letterati del Cambodge e del Siam non sono mai riusciti a decifrare.
Chi ha costruito quel capo lavoro di architettura, che dopo tanti secoli s’innalza ancora maestoso a ricordare la potenza di quel popolo, così misteriosamente scomparso?


Oggi le rovine dell’ultima capitale edificata ad Angkor tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII d. C. sono patrimonio Unesco. Estese su un’area di oltre 145 ettari, sono meta di un turismo di massa che, insieme ai danni dovuti al clima tropicale, alla fragilità dell’arenaria, al guano dei pipistrelli e agli uomini, non contribuisce certo alla loro conservazione. Tuttavia, grazie alle ricostruzioni e ai restauri intrapresi a partire dai primi del Novecento, all’epoca del colonialismo francese, e ancora in corso, l’immagine del sito è certamente migliore rispetto a quella descritta da Salgari, quando la boscaglia dominava incontrastata. Anche se in qualche caso, per l’ammirazione dei visitatori, è stato conservato qualche albero secolare le cui radici, simili a serpenti mostruosi, avviluppano le rovine quasi a soffocarle.
Quanto alla famosa statua del fondatore della città Jayavarman VII, il “re lebbroso”, quella che si erge sulla terrazza detta appunto “del re lebbroso” è solo una copia: l’originale (probabile raffigurazione di Yama, la divinità preposta, nella religione induista, al trapasso delle anime da un mondo all'altro) si trova attualmente a Phnom Penh nel Museo Nazionale di Cambogia, al riparo da furti e vandalismi.
E Manoa? Ne ha fatto scorrere d’inchiostro il mito e la posizione del presunto Eldorado, che nel corso del tempo si è andato spostando sempre più dal Venezuela nell'attuale Stato brasiliano di Roraima e verso la Guyana. Fra i tanti che hanno dedicato una vita intera alla sua ricerca, l’esploratore e pittore cileno Roland Stevenson. Secondo lui il popolo degli incas si procurava l’oro nel Roraima, appunto, presso alcune tribù che abitavano le rive di un lago chiamato inizialmente Manoa (poi Parime). Stevenson, che ha perlustrato più volte insieme ad alcuni geologi la cosiddetta savana di Boa Vista, nell’estremo nord del Brasile, sostiene di aver ravvisato sulle colline circostanti la linea di demarcazione del livello di quel lago, ormai prosciugato da secoli. Nella zona ha pure rinvenuto antiche tombe e resti umani, ma nessuna traccia d’oro: ciò nondimeno è convinto che il vero Eldorado vada cercato qui. «Ma non era una città pavimentata d’oro come si fantasticava: era semplicemente un luogo ricchissimo di vene aurifere dove vivevano varie tribù indigene».
Il mistero continua.

Oreste Paliotti


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