Haradja, la tigre d'Hussif
Capitan Tempesta/Il Leone di Damasco


[...] - Chi comanda ad Hussif?
- La nipote di Alì pascià.
- Dell'ammiraglio turco! - esclamò la duchessa.
- Sì, signora.
- Che donna è?
- Bellissima e molto energica: anzi, si dice che sia anche molto crudele verso i prigionieri cristiani. Mi ha affamato per sei giorni continui, per una mala risposta che le detti e mi fece somministrare una tale bastonatura che ne porto ancora le tracce quantunque siano trascorsi già sette mesi. [...] [Capitan Tempesta, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1905, Capitolo XI]


[...] Una donna giovane e bellissima, stava ritta nel mezzo, con una mano appoggiata alla spalliera d'un divanetto scintillante di ricami d'oro.
Era una figura alta, slanciata, con occhi nerissimi che risaltavano vivamente sotto le bellissime sopracciglia meravigliosamente delineate, la bocca piccola dalle labbra rosse come ciliege mature, i capelli lunghi d'una tinta che aveva i riflessi delle ali dei corvi e la tinta della pelle leggermente abbronzata.
Aveva però in tutto l'insieme di tratti del viso, quantunque d'una purezza quasi greca, qualche cosa di duro e di energico che tradivano la donna che godeva fama di essere crudele ed inflessibile, la donna più abituata a comandare ed imperiosamente, che ad obbedire.
Come le grandi dame turche di quell'epoca, portava dei superbi calzoni larghi, imbottiti internamente in modo che le gambe non potevano trasparire, in seta bianca ricamata in oro; un giubbettino di seta verde con larghi bordi d'argento e bottoni formati da grosse perle d'un valore inestimabile ed ai fianchi un'alta fascia di velluto rosso, annodata sul davanti, con lunghe code che scendevano fino a toccare le piccole scarpe a punta rialzata, di pelle rossa con ornamenti d'oro.
Nessun gioiello nè agli orecchi, nè ai polsi; invece, passata nella fascia, teneva una piccola scimitarra coll'impugnatura d'oro incrostata di zaffiri e di smeraldi e la guaina d'argento con passanti di madreperla. [...] [Capitan Tempesta, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1905, Capitolo XV]





Nelle foto: Haradja, illustrazioni di Alberto Della Valle. Capitan Tempesta, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1905.


[...] Haradja non aveva cessato di chiacchierare con molto brio, provocando sovente delle risa, poi quando le chicchere furono portate via, si fece recare un ricchissimo cofanetto d'argento, meravigliosamente cesellato e adorno di pietre preziose di molto valore e levò due piccoli rotoli bianchi offrendone uno alla duchessa.
- Che cosa sono? - chiese questa, osservandoli con curiosità.
- Si fumano, perchè sotto questa leggera carta vi è del tabacco. Non ne hai mai vedute nel tuo paese, effendi?
- No, signora.
- Non fumano in Arabia?
- Sì, alcuni usano la pipa, ma di nascosto, onde non correre il pericolo di farsi tagliare le labbra od il naso. Sai che Selim ha proibito l'uso del tabacco e che ha dato ordini severissimi contro coloro che ne fanno uso.
Haradja proruppe in uno scoppio di risa.
- E tu credi che io abbia paura di Selim? Lui è a Costantinopoli ed io sono qui. Mandi i suoi giudici a condannarmi e vedrà come li tratterò io. Ho dei pali piantati sulla cima delle Torri e quelle genti potrebbero servire benissimo da mostra-vento. Fuma liberamente, mio bel capitano. Ci troverai piacere ad inebriarti un po' con questo fumo dolcissimo e profumato.
Accese la sigaretta - le prime che si cominciavano a fabbricare allora - aspirò una boccata di fumo, che poi lasciò sfuggire lentamente attraverso le sue belle labbra, rosse come corallo, appena socchiuse, quindi riprese:
- Selim! Un sultano indolente, che per evitare ogni fatica, si fa condurre in lettiga attraverso i giardini del suo serraglio e che non possiede altra forza, che quella di ordinare continuamente dei massacri per compiacere le belle del suo harem. Oh! Non somiglia certo a Maometto II, nè a Solimano. Se non avesse due grandi capitani come Mustafà e mio zio Alì, Cipro sarebbe ancora nelle mani dei veneziani e forse le galere della Repubblica minaccerebbero nuovamente Costantinopoli.
- Eppure ho udito raccontare, signora, che anche a te non spiacciono le stragi.
- Io sono una donna, effendi.
- Non ti comprendo, rispose la duchessa. - Nell'Arabia che cosa fanno le tue donne?
- Si occupano a preparare il pranzo ai mariti ed accudire le tende ed i cammelli.
- Sicchè hanno delle distrazioni, - disse Haradja, che continuava a fumare placidamente la sigaretta con studiata lentezza.
- È vero, signora.
- E le donne turche quali distrazioni hanno? Rinchiuse nei loro harem, lontane dai rumori della città, quasi sepolte vive, si stancano ben presto e dei profumi e delle danze delle schiave e dei racconti delle vecchie. Una noia profonda si impadronisce di loro ed un prepotente bisogno di emozioni forti, siano pure crudeli, le prende. Sentono allora il bisogno di vedere degli esseri umani soffrire, sognano sangue e stragi e diventano cattive. Io ho passata la mia gioventù nell'harem di mio zio. Potevo diventare diversa dalle altre donne turche? D'altronde, tutte si rassomigliano, siano turche o cristiane. [...] [Capitan Tempesta, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1905, Capitolo XVI]





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