Il Praho

Capitan Fabio Negro



 



I due legni […] non erano due veri prahos i quali ordinariamente sono piccoli e sprovvisti di ponte. Sandokan e Yanez, che in fatto di cose di mare non avevano di eguali in tutta la Malesia, avevano modificati tutti i loro velieri, onde affrontare vantaggiosamente le navi che inseguivano.
Avevano conservato le immense vele, la cui lunghezza toccava i quaranta metri e così pure gli alberi grossi, ma dotati di una certa elasticità e le manovre di fibre di gamuti e di rotang, più resistenti delle funi e più facili a trovarsi, ma avevano dato agli scafi maggiori dimensioni, alla carena forme più svelte e alla prua una solidità a tutta prova.
Avevano inoltre fatto costruire su tutti i legni un ponte, aprire sui fianchi dei fori pei remi ed avevano eliminato uno dei due timoni che portavano i prahos e soppresso il bilanciere, attrezzi che potevano rendere meno facili gli abbordaggi.

[...] Erano  quattro grandi prahos malesi,  bassi di scafo,  leggerissimi, snelli, con vele di forme allungate sostenute da alberi triangolari. Questi legni,  che filano con una sorprendente rapidità e che,  grazie al  bilanciere  che  hanno  sottovento e al largo sostegno che portano sopravento,  sfidano i più tremendi uragani,  sono generalmente  usati dai  pirati  malesi,  i  quali  non  temono di assalire con essi i più grossi vascelli che s'avventurano nei mari della Malesia.
(Emilio Salgari, Le Tigri di Mompracem, Donath, 1900)




Perla di Labuan

La Perla di Labuan, […] era uno dei più grandi, dei più bei prahos che solcassero gli ampi mari della Malesia. Stazzava centosessanta tonnellate,  il triplo dei  prahos  ordinari. Strettissima aveva la carena,  svelte le forme, alta e solida la prua, fortissimi gli  alberi  e  amplissime  le  vele,  i  cui  pennoni  non misuravano meno di sessanta metri.  A vento largo,  doveva filare come una rondine marinara e lasciarsi di gran lunga indietro i  più  rapidi steamers e i più veloci velieri d'Asia e d'Australia.
(Emilio Salgari, I Pirati della Malesia, Donath, 1906
)




Marianna

Sembrava un veliero malese, dalle dimensioni straordinarie delle sue vele, la cui superficie era immensa, però lo scafo non era precisamente simile a quello dei prahos, non essendo provvisto di bilancieri per appoggiarsi meglio sulle onde quando le raffiche aumentano di violenza, né avendo al centro quella tettoia che chiamasi attap. Anzi era costruito, a quanto pareva, con lamine di ferro anziché di legno, non aveva la poppa bassa, la tolda era sgombra e poi stazzava tre volte di più dei prahos ordinari, i quali di rado hanno una portata di cinquanta tonnellate.

Comunque fosse, era un bellissimo veliero, lungo, affilato, che a vento largo, o, meglio ancora, con vento di poppa doveva filare meglio di tutte le navi a vapore che allora possedeva il governo anglo-indiano.
(Emilio Salgari, Le due tigri, Donath, 1904
)




Marianna

La nave […] era uno splendido veliero a due alberi, costruito di certo da poco tempo a giudicarlo dalle sue linee ancora perfette, con due immense vele simili a quelle che portano i grossi prahos malesi. Doveva stazzare non meno di duecento tonnellate ed aveva un armamento da renderlo temuto anche a qualche piccolo incrociatore.

Infatti, aveva sul cassero due pezzi da caccia di buon calibro, protetti da una barricata mobile formata da due grosse lastre di acciaio congiunte ad angolo e sul castello di prora quattro lunghe e grosse spingarde, armi eccellenti per mitragliare i nemici, quantunque di corta portata.
(Emilio Salgari, Il re del mare, Donath, 1906
)

Siamo sicuramente di fronte alla nave salgariana per eccellenza, forse anche più della Folgore. Il praho fa senz’altro parte di quel bagaglio esotico che viene richiamato quando si parla dell’impatto di Emilio Salgari sull’immaginario collettivo.

Anche se, come dichiara lo stesso autore, i prahos utilizzati dalle Tigri di Mompracem sono fuori dall’ordinario, più grossi e più robusti, modificati per vincere forze superiori dalla perizia marinaresca di Sandokan e di Yanez (evidenziata da Salgari). Riesce dunque difficile un paragone tra la realtà e la parte scritta, seppure siano presenti elementi strutturali che distinguono questo tipo di nave orientale.

Uno di questi è il bilanciere, comune a molte imbarcazioni rudimentali e tipiche delle popolazioni selvagge della Malesia, della Micronesia, della Papuasia e della Guinea. Si tratta essenzialmente di un’appendice affusolata e idrodinamica, collegata lateralmente per mezzo di due staffe (di legno) allo scafo centrale. Ciò serviva a garantire una maggiore stabilità con vento sostenuto e rafficato poiché il bilanciere di sottovento, sottoposto alle leggi della fisica marina come qualsiasi altro corpo immerso, offriva una resistenza aggiuntiva in modo da impedire il capovolgimento del praho.

Un’altra caratteristica fondamentale dei prahos è la forma allungata delle vele. Infatti, le dimensioni della velatura sono eccedenti e sproporzionate rispetto allo scafo, ma ciò permette loro di raggiungere quelle velocità incredibili descritte da Salgari. Tipicamente, l’armamento è costituito da vele latine, quindi munite di antenne per la manovra, o vele al terzo, sempre a foggia triangolare. Questa è una considerazione generale ma che non è applicabile come standard, in quanto le caratteristiche costruttive dei prahos variano notevolmente di regione in regione.


Prima di fare quindi un’analisi del “modello salgariano”, vediamo una panoramica dei tipi di prahos più diffusi.

Praho volante di Giava

É la versione più grande, più sofisticata e l’unica ad avere un ponte (e quindi a dividere lo scafo in coperta e sottocoperta, garantendo anche migliore riserva di galleggiabilità e compartimentazione). Le vele sono quadre, armate superiormente su un pennone e inferiormente su un’antenna. Nell’immagine si riesce a scorgere la tettoia di palma sul ponte (attap) così come il sistema di governo a remo laterale, anziché con il timone centrale. Questa condizione, ovviamente, muterà nei secoli. La mia idea su questa imbarcazione, costruita come suggerisce il nome a Giava, è che si tratti di un ibrido tra i prahos locali e le giunche cinesi, dal momento che l’isola fu meta di importanti flussi migratori dalla Cina. Pertanto ritengo che la fusione delle due ingegnerie abbia portato alla realizzazione di uno scafo più robusto e articolato e di uno specchio di poppa appiattito e slanciato verso l’alto (tipico però anche delle navi europee del XVIII secolo).




Praho bedang

Diffuso soprattutto a Giava e a Madura, munito di doppio bilanciere, appare veloce e slanciato. La prora, di forma allungata, si innalza oltre l’asse della poppa in forma di rostro. Questa caratteristica, oltre che difensiva, doveva avere scopi anche di utilità per una migliore attitudine a “tagliare” il mare di prua.






Praho mayang

Si nota immediatamente (a parte la bandiera neerlandese) l’influenza della nave europea, e soprattutto della nave olandese, sulle forme di questo scafo. Le sembianze tondeggianti dei fianchi lo fanno rassomigliare ai pesanti fluyt del ‘600 o alle orche da carico dei mari del nord, che necessitavano notevoli dimensioni delle stive per ottimizzare la capacità di carico.

È probabile che anche il praho mayang venne modificato (ricordiamo che gli olandesi furono padroni di metà dell’Indonesia) per gli stessi fini di trasporto.




 

Anche se non viene chiamato propriamente praho, credo sia opportuno chiudere questa rassegna menzionando il caracor o outrigger, che oltre ad avere le fattezze delle imbarcazioni tipiche del Sud Est Asiatico, è interessante perché prediletta dai pirati di Sulu (Borneo settentrionale).

Si tratta di una nave abbastanza rudimentale, non più grossa di una canoa. Quando veniva avvistata, era però evitata perché montata dai moros o dagli illanun, i più feroci pirati della Malesia, oltre che cacciatori di teste come i dayaki. I bilancieri sono infatti “pontati”, per permettere ai rematori di spostarsi lateralmente e vogare quando il vento è assente. La dimensione notevole della vela, invece, in condizioni di vento favorevole fornisce allo scafo una velocità di tutto rispetto.

Si  notano (meglio in quest’illustrazione, ma presenti anche in alcune delle altre), a poppavia dell’alberetto, due sostegni rigidi che dovrebbero  fungere da sartie. Sono in realtà affusti di legno, cosicché l’albero viene chiamato “treppiedi”, per questa sua caratteristica. Immagino che Salgari descrivendoli come alberi triangolari, volesse intendere la particolarità appena descritta.

 

Sui prahos salgariani possiamo dire, anzi ribadire visto che le descrizioni sono abbastanza complete, che le dimensioni maggiori ne fanno navi differenti dai prahos malesi. Viene accennato che uno dei due timoni è stato eliminato (v. descrizione praho volante) e che la corazzatura della carena è di ferro anziché di legno, seppure sarebbe più plausibile l’utilizzo di placche di rame, meno soggette al deterioramento dell’acqua di mare.

La lunghezza, superiore ai quindici metri, e la stazzatura, di circa duecento tonnellate, misure superiori ai prahos “reali”, ne fanno navi da battaglia idonee alla guerra di corsa, e non si può certo muovere critica a Salgari se si è allontanato dalle forme esili e leggere delle classiche imbarcazioni malesi.

Un’ultima osservazione sulla nave vista nello sceneggiato Sandokan di Sergio Sollima del 1976. Se pure questa abbia un armamento a goletta (con fiocchi e due rande auriche), per quanto detto sopra, è assolutamente plausibile e realistica.






* I mari di Emilio Salgari *



E. Salgari
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