FACHIRI E SADHU




I fachiri e, più in generale, i “santoni” indiani sono personaggi estremamente “pittoreschi”; sono figure cioè che sia solo per il loro particolare aspetto oppure per le “prove” a cui sottopongono il loro corpo valgono a creare un’atmosfera misteriosa e selvaggia, di cui l’India è da sempre stata considerata il simbolo.
Il termine fachiro deriva dall’arabo faqir ed indicava in origine un asceta musulmano che aveva fatto voto di povertà. Successivamente fu però usato dai viaggiatori e dai missionari europei del Settecento per indicare i mendicanti indù dediti allo yoga e a particolari pratiche ascetiche.
E questo è il significato che la parola ha nelle attuali lingue europee: "penitente indiano che compie dolorosi atti di mortificazione". Infatti, la prima immagine che la parola fachiro evoca alla nostra mente è quella di un personaggio magrissimo che, incurante del dolore, si sdraia su un letto di chiodi o che cammina impavido sui carboni ardenti.

Anche Salgari ricorre in più di un episodio alla figura del fachiro, e descrivendone l'aspetto e la prova di resistenza che dimostra il favore divino, avvolge il lettore nella suggestiva atmosfera dell’India tanto misteriosa e selvaggia quanto affascinante.
Nel romanzo “Le due tigri” Sandokan e compagni, sono alla ricerca di notizie utili per ritrovare Darma, la figlia di Tremal-Naik rapita dai thug, e assistono alla Festa del fuoco in onore di Darma Rajah, la divinità indù che presiede al regno dei morti.


A un cenno del capo dei bramini che aveva la direzione della cerimonia, le bajadere sospesero le loro danze, mentre i suonatori posavano i loro strumenti.
Tosto una quarantina d'uomini mezzi nudi, per la maggior parte fakiri, che tenevano in mano dei ventagli di foglie di palma, si fecero innanzi avviandosi verso il braciere che, alimentato da centinaia d'altri ventagli maneggiati da robusti garzoni, fiammeggiava lanciando in aria dense volute di fumo soffocante.
Quei fanatici che si apprestavano a subire la prova del fuoco per scontare i loro peccati piú o meno immaginari, non sembravano affatto spaventati dal pericolo che stavano per affrontare.
Si fermarono un momento, invocando con urla selvagge la protezione di Darma-Ragia e della sua sposa, si stropicciarono la fronte colla cenere calda, poi si precipitarono sui carboni ardenti a piedi nudi, mentre i tam tam, i tamburi e gl'istrumenti a fiato riprendevano la loro musica infernale per coprire probabilmente le urla di dolore di quei disgraziati.
Alcuni attraversarono lo strato ardente di corsa; altri invece a passo lento, senza dare prova alcuna di dolore. Eppure dovevano sentire i morsi atroci dei carboni, perché i loro piedi fumavano e per l'aria si espandeva un nauseante odore di carne bruciata.
- Sono pazzi, costoro! - non aveva potuto trattenersi dall'esclamare Sandokan. [E.Salgari "Le due Tigri", Donath 1904]


Nel romanzo “Il Re del mare” ad effettuare la terribile dimostrazione di coraggio è invece il pellegrino musulmano che, a capo delle orde dayache, assedia Yanez, e compagni nella fattoria che Tremal-Naik aveva costruito nel Borneo. In quest’occasione lo stesso scrittore veronese riporta che possono superare tale prove, senza grandi danni, non solo i fachiri, ma anche altre persone:


Un viaggiatore europeo, il colonnello inglese Gudgeon, ha voluto alcuni anni or sono tentare anche lui la prova assieme ad alcuni compagni, in un'isola dell'Oceano Pacifico, durante una cerimonia religiosa, certo di non cavarsela senza dolorose scottature.
Ebbene, lo credereste? Il coraggioso colonnello uscì dalla prova non meno illeso dei sacerdoti![E.Salgari "Il Re del Mare", Donath 1906]


Ricordiamo che anche altrove Salgari mostra un po’ di scetticismo verso i presunti poteri dei fachiri. Basti per tutti l’accenno ne “I misteri della jungla nera” al digiuno e ad altri supposti poteri degli appartenenti alla setta dei poron-hungse.
Una nota mostra il pensiero dello scrittore sull’argomento:


Queste credenze sono radicate nel popolo indù. Si crede fermamente che questi fachiri non mangino mai perché in pubblico non si fanno vedere. Nelle loro case però è altra cosa, si capisce.[E.Salgari "I Misteri della Jungla Nera", Donath 1895]




Ma come spiegano queste presunte capacità i sannyasin, questo il loro nome in sanscrito? Grazie alla prolungata ascesi e alle automortificazioni corporee riuscirebbero ad acquisire particolari meriti al cospetto degli dei. Per premio le divinità donano loro particolari facoltà (siddhi) quali ad esempio l’insensibilità al dolore, la levitazione (cioè la capacità di alzarsi da terra), la pirobazia, l’invisibilità, la capacità di ingrandirsi o rimpiccolirsi a piacimento e via dicendo.
Nei villaggi indiani, da millenni, i fachiri stupiscono il loro numeroso pubblico con dimostrazioni delle loro acquisite capacità, ricevendo in cambio doni e denaro.
Purtroppo queste dimostrazioni sono fenomeni spiegabilissimi o, peggio, veri e propri trucchi da illusionisti. Ad esempio, accennavamo prima al "letto di chiodi". In realtà, la cosa non ha niente di sovrannaturale. Si è studiato che se una persona di 70 kg si stende su un letto di chiodi posti a 5 cm l’uno dall’altro, il suo peso si scarica su circa 80 chiodi. Quindi meno di 1 kg per chiodo e com’è evidente questa pressione non è sufficiente per essere trafitti, tutt’al più l’esercizio denota una scarsa propensione al solletico! Inoltre se i chiodi sono più vicini, la pressione per chiodo diminuisce ulteriormente.






Altra performance stupefacente è la levitazione, cioè la capacità di sollevarsi in aria, peraltro praticata largamente anche da molti “maghi” occidentali.
Questa è da classificarsi come un mero trucco da illusionista. Infatti, durante l’esecuzione dell’esercizio, il fachiro è interamente coperto, con la sola eccezione della testa, da un lenzuolo sotto il quale nasconde due bastoni.
Il fachiro afferra i bastoni e inizia a sollevarli mentre contemporaneamente si alza in piedi. Nella figura a lato una variante del trucco descritto.





Diverso è il discorso per quanto riguarda la presunta capacità di restare sepolti sotto terra per giorni o addirittura per settimane. Restare sepolti per alcune ore è, in condizioni particolari, una cosa possibilissima, a patto di essere ben allenati e di possedere un grande controllo sul proprio organismo. Infatti una persona chiusa in una bara sigillata ha a disposizione un quantitativo d’aria sufficiente per diverse decine di minuti. Si tratta di consumare questa riserva d’ossigeno il più lentamente possibile.
Qui entra in gioco la capacità di concentrazione e di autocontrollo. Si tratta cioè di una difficilissima prestazione fisica che non è però esclusivo appannaggio dei fachiri. Altri hanno effettuato prove del genere.
Ad esempio, il famoso mago Houdini nel 1926 restò chiuso in una cassa immersa nell’acqua per 1 ora e 28 minuti. In questo caso quindi nessun trucco, a parte l’espediente di digiunare per 1 giorno o 2 prima della prova, per rallentare le funzioni vitali. Se invece che in una bara l’aspirante mago viene sotterrato direttamente nella terra, basta avere la precauzione, quando lo si ricopre, di lasciare una intercapedine.

Diverso è il discorso di coloro che pretendono di restare sepolti per settimane come ad esempio il fachiro Sitama, il protagonista negativo del romanzo “La montagna di luce”. Il disegno a lato mostra uno dei trucchi più utilizzati. Tramite un tunnel precedentemente predisposto allo scopo, il fachiro raggiunge un albero cavo e lì rimane nascosto fino al termine della prova, quando ripercorre alla rovescia la stessa strada.

Contrariamente a quanto molti affermano, e tra questi anche Salgari a suo tempo nel romanzo “La Montagna di luce”, non sono mai stati effettuati esperimenti di prolungata sepoltura sotto rigido controllo. O meglio, ne fu effettuato uno a Bombay nel 1971 e si concluse tragicamente con la morte del presunto fachiro dopo poche ore dal seppellimento.

Una delle prove che più colpiscono lo spettatore è quella della camminata sul fuoco, la pirobazia. Innanzitutto si parla di “camminare sul fuoco” ma in realtà si “cammina sulla brace” e questo ha la sua differenza. La brace o il carbone su cui i supposti maghi camminano sono realmente a temperatura molto elevata, dell’ordine di alcune centinaia di gradi. Ma la brace è un pessimo conduttore di calore e quindi il piede si brucia solo se resta a contatto della brace troppo a lungo. Cioè se la camminata è sufficientemente veloce i rischi di procurarsi scottature alla pianta dei piedi sono minimi.
Il tempo limite varia da persona a persona in funzione, ad esempio, della percezione personale del dolore, dell’ispessimento della pelle sotto i piedi e del naturale strato di umidità presente sotto i piedi. Una camminata di 2 o 3 passi difficilmente produce bruciature.

In alcuni casi, pur non essendo veri i poteri, sono vere le mortificazioni fisiche che i fachiri si impongono. Ad esempio la figura del fachiro dal braccio anchilosato a causa della prolungata immobilità, descritto da Salgari sia ne “I misteri della Jngla Nera” che in “Alla conquista di un impero”, è un personaggio reale. Testimonianza di questo si trova nel libro “L’India dei Rajah” del viaggiatore francese Louis Rousselet, abituale fonte di Salgari per l’India, che racconta di averlo incontrato nella cittadina di Sunaghur durante il suo viaggio in India dal 1863 al 1868.
Salgari ne “I misteri della Jungla Nera” lo descrive così:


Era, più che un uomo, uno scheletro. Il suo volto incartapecorito, era coperto da una barba, fitta, incolta, che gli giungeva sotto la cintura, e coperto di bizzarri ta­tuaggi rossi e neri raffiguranti per lo più bene o male dei serpentelli, mentre la sua fronte era impiastricciata di cenere.
I suoi capelli del pari lunghissimi e che forse mai avevano conosciuto l'uso dei pettini e delle forbici, formavano come una specie di criniera, pullulante certo d’insetti.
Il corpo, spaventosamente magro, era quasi nudo, non portando che un piccolo perizoma largo appena quattro dita.
Quello però che destava ribrezzo, era il braccio sinistro. Quel membro, ridotto a pelle ed ossa, rimaneva costantemente alzato né potevasi più abbassare essendo ormai disseccato ed anchilosato.
Nella mano, strettamente legata, con delle corregge e chiusa in modo da formare un recipiente, il fanatico aveva deposta della terra piantandovi un piccolo mirto sacro, il quale a poco a poco era cresciuto come se si trovasse in un vaso. Le unghie non potendo trovare sfogo, eransi dapprima incurvate, poi avevano trapassata la mano ed ora uscivano, come artigli di bestia feroce, attraverso il palmo.[E.Salgari "I Misteri della Jungla Nera", Donath 1895]


In tempi più recenti il santone Amret Giri-Baba ha trascorso dodici anni senza mai abbassare il braccio destro, altri stanno per giorni con la testa sotto terra o con una gamba alzata per anni.
Come si vede, quindi, le spettacolari prove di poteri soprannaturali possono essere ben spiegate senza scomodare gli dei.
Verrebbe da pensare: “Solo trucchi e performance incredibili che non fanno del male a nessuno”.
Purtroppo non è così. Infatti l’India è percorsa in lungo e in largo da sedicenti santoni che propinano agli abitanti delle migliaia di villaggi della sterminata India rurale una serie di trucchi da baraccone, spacciandoli per dimostrazioni della benevolenza divina e di un loro rapporto privilegiato con la divinità.
Pertanto sono fatti oggetto di offerte per ricevere, loro tramite, aiuto dalle divinità che gli accordano il loro favore in maniera così eclatante. In tal modo i poveri dei villaggi indiani diventano ancora più poveri a favore di questi imbroglioni e profittatori.

Per combattere questo fenomeno è stata creata una apposita associazione, la “Indiasn Skeptics”.
Scopo dell’associazione è smascherare chiunque tenti di spacciare per miracoli quelli che non sono altro che semplici trucchi. Esponente di spicco è Basava Premanand che da quasi 50 anni gira per le campagne indiane lottando contro coloro che camminano sulle acque, non mangiano da anni, creano sostanze magiche dal nulla...
Suo obiettivo è metterli in ridicolo di fronte al loro pubblico affinché perdano le loro capacità di persuasione e di convincimento.

Abbiamo visto trucchi, imbrogli, vere e proprie truffe, spacciate per risultati ottenuti grazie alla intercessione di divinità varie. Spesso il tutto finalizzato a spillare soldi e regali a poveri sprovveduti e creduloni.
Esiste però anche una grande spiritualità, forse, per i nostri parametri occidentali, anche eccessiva, ma senz’altro da rispettare e approfondire.
Ad esempio i sadhu, cioè asceti, di solito devoti del dio Shiva, dedicano la loro vita all’abbandono, alla rinuncia della società. Vivono dedicando la loro vita, o una parte consistente di essa, ad un completo abbandono alla religiosità ed alla spiritualità, spesso completamente isolati dal mondo.
Si contraddistinguono per la treccia annodata a crocchia, per la cenere con cui si cospargono il corpo, spesso si vestono semplicemente con una striscia di pelle di leopardo attorno ai fianchi. Loro dio è, nella maggior parte dei casi, Shiva nel suo aspetto di Mahayogi, cioè di grande asceta maestro dei rinuncianti.

Si stima che oggigiorno i sadhu siano all’incirca un milione, ma durante la dominazione britannica ne furono censiti fino a cinque milioni. La gamma del loro modo di vivere è amplissima: gestiscono scuole per i poveri, lavorano in grandi aziende agricole, predicono la fortuna, interpretano i sogni, leggono la mano durante i grandi raduni religiosi.
Chi aspira a diventare sadhu deve scegliersi una guida spirituale, un maestro, cioè un guru. Dovrà servirlo diligentemente in cambio degli insegnamenti religiosi ricevuti. Non è raro in India che tale scelta di vita venga fatta praticamente da bambini.
E’ tradizione, durante questi primi anni di rinuncia trascorsi a fianco dei loro guru, che i sadhu si radano la testa come segno di rinuncia e di sottomissione al proprio maestro. Una volta appreso l’insegnamento il sadhu si allontana e solo a questo punto si lascia crescere i capelli che vengono portati lunghi e annodati nella caratteristica crocchia. Alcuni sono in eterno pellegrinaggio. Il pellegrinaggio per eccellenza è il pradakshina che consiste nel seguire il corso di un fiume sacro dalla sorgente alla foce e viceversa, e può durare anche cinque anni.

Quando recitano le loro formule rituali di preghiera alternano alle parole grandi boccate da grandi pipe di argilla, dette chillum, in cui hanno inserito la ganja, cioè la marijuana.
L’erba faciliterebbe il raggiungimento di stati di identificazione estatica con la divinità.
I sadhu sono divisi in varie sette ascetiche che si contendono, spesso anche violentemente, il privilegio di aprire il corteo durante i mela, i grandi raduni religiosi dell’induismo, sventolando con orgoglio il proprio stendardo.

Ci sono i Naga Sadhu, cioè gli asceti nudi, temuti dalla popolazione perché violenti, i Kapalika che usano come scodella un cranio umano, gli Aghori la cui iniziazione prevede che mangino un pezzo di un cadavere umano. Esistono anche sette meno macabre, non collegate ai cimiteri e alle cremazioni, come i Bairagi, i Nathapanti, i Kanpatha e i Ramanandi.
Quest’ultima figura è ben nota ai lettori di Salgari. Questi la trovò descritta in una delle abituali fonti per l’India, “Il costume antico e moderno” del Ferrario e la utilizzò più volte nei propri scritti.
Nel racconto “Il rajah di Bithor” viene così descritto:


Come tutti gl'individui della sua casta, il ramanandy aveva i capelli estremamente lunghi e folti, coperti di una polvere rossastra frammischiata a fango e ravvolti intorno alla testa in modo da formare una massa enorme simile ad uno di quei giganteschi turbanti che portano i curdi e gli usbek; aveva inoltre nel mezzo del mento un filo di barba che gli scendeva fino ai piedi, tre segni sulla fronte, tre alla cavità del petto ed altrettanti sull'avambraccio e tutto il corpo impiastricciato di cenere, ciò che gli dava un aspetto spaventevole. Il suo vestito poi non consisteva che in un pezzo di tela avvolto intorno ai fianchi.[E.Salgari "Il Rajah di Bitor"]


Fachiri Ramanandi compaiono anche nei romanzi “I misteri della jungla nera” e “La montagna di luce” oltre che nel racconto “Il rajah di Bithor”.
In tutti e tre i casi, a conferma del proprio giudizio sui fachiri, sono personaggi negativi, concetto d’altra parte trasmesso anche dalla descrizione stessa, con il commento ”gli dava un aspetto spaventevole”.

In realtà i ramanandi erano e sono seguaci degli insegnamenti mistici del saggio Ramananda (1400 ca - 1470 ca.). Questi era un devoto di Vishnù, in particolare della sua incarnazione Rama che ammetteva fra i suoi seguaci tutti, senza distinzioni di casta o di sesso, anche i musulmani. Predicò per tutta l’India seguito da 12 discepoli, facendo molti adepti ma stando molto attento a non mettersi in urto con la casta tradizionalista dei bramani.


Il più grande e famoso raduno cui partecipano i sadhu è il KHUMBA MELA, che significa Festa del vaso o della brocca.
Il nome trae origine dal racconto mitologico della lotta fra dei e asura (demoni) per il possesso dell’amrita, il nettare capace di donare l’immortalità a chi lo beva. Durante la lotta quattro gocce del prezioso nettare, conservato in una brocca, caddero sulla terra, nei luoghi dove sorgono le quattro città che a turno ospitano il grande raduno religioso. La festa celebra quindi la vittoria finale degli dei sui demoni.
Le quattro città in cui ogni tre anni si svolge il raduno sono Haridwar, Ujian, Nasik e Prayaga. Quest’ultima è nota anche con il nome musulmano di Allahabad che gli fu imposto attorno al 1700 dall’imperatore moghul Aurangzeb.
E’ proprio a Prayaga che si svolge il mela più importante. Infatti è in questa città che si ha la confluenza tra i fiumi sacri Gange, Jamuna e Sarasvati, essendo quest’ultimo un fiume mitico che scorre invisibile nel suo corso sotterraneo.
Il momento culminante del raduno, che raccoglie milioni e milioni di devoti, è il bagno rituale nelle fredde acque del Gange, per purificarsi. Bagnarsi nelle acque sacre in occasione dei Mela garantisce la liberazione dalle colpe commesse permettendo di rinascere nella incarnazione futura in una posizione sociale migliore.

Quella del sadhu è una figura molto rispettata e stimata nella società indiana. Non è raro vedere devoti che si precipitano a raccogliere la terra che un santone ha appena calpestato o donne che si prostrano ai suoi piedi per essere benedette.
Se vissuta in maniera autentica la vita del sadhu è effettivamente permeata di grande spiritualità e rispetto del mondo. Sono tutti vegetariani, quasi tutti hanno fatto voto di castità ma alcuni hanno anche famiglia, molti praticano lo yoga.
Non tutti i sadhu abbandonano del tutto la vita mondana. E’ così possibile ad esempio vederne uno in sella ad una fiammante moto sportiva o telefonare con un cellulare all’ultima moda.

Anche se predominano i seguaci di Shiva, il sadhuismo è aperto a tutti i culti: indù, jaina, buddhismo, sikh, musulmano ed anche cristiano. In questo spirito di tolleranza e di assoluta mancanza di gerarchie c’è spazio per tutti, anche per i falsi sadhu, coloro che praticano il fachirismo. Coloro cioè che, allo scopo di sfruttare e godere dei privilegi concessi ai veri rinunzianti dalla religiosissima popolazione indiana, si spacciano per essere capaci di stupefacenti prestazioni negate ai comuni mortali.
E sono queste figure negative che prevalgono nelle descrizioni salgariane, i fachiri sono insomma sempre collocati tra i cattivi. Sono il nerbo dell’esercito di Sindhia quando questi tenta di riconquistare il trono dell’Assam, è il fachiro Sitama che cerca con tutti i mezzi, facendosi anche seppellire vivo, di impadronirsi del diamante “La montagna di luce” nel romanzo omonimo. E’ ancora un pellegrino musulmano che cammina sui carboni ardenti, quindi un fachiro nel senso originario del termine, a guidare la rivolta dei dayachi contro Tremal Naik per conto dei thug ne “Il re del mare”.
C’è poi il crudele Garrovi, protagonista negativo de “Il capitano della Djumna”, fachiro saniasso che non esita ad uccidere chiunque si ponga tra lui e la fortuna in monete d’oro trasportata sulla nave “Djumna”.

Il motivo di questo severo giudizio di Salgari per i fachiri non c’è dato di sapere.
Probabilmente lo scrittore rimane “vittima” delle proprie fonti. Le pubblicazioni che circolavano infatti in Italia nel periodo (Rousseelt, Ferrario, Gioranle Illustrato dei Viaggi...) ritraggono solo le figure più curiose ed inquietanti del fenomeno indiano.
Non c’è assolutamente alcuna forma di approfondimento sulle motivazioni che muovono questi singolari uomini, né distinzioni di sorta tra curiosi asceti e spregiudicati imbrogliaoni. Questo è frutto di un approccio ricorrente nei rapporti colonialisti o missionari, in cui l’osservatore parte da una presunzione di superiorità della propria società rispetto a quella da descrivere, da “civile” a “selvaggia”, per cui vede le peculiarità senza cogliere la spiritualità sottostante o senza raffrontarle al contesto in cui sono nate.
Tuttavia in altre occasioni Salgari ha saputo prendere spunto dalle pubblicazioni correnti senza subirle passivamente ma anzi rielaborandole da un proprio coraggioso e moderno punto di vista, come per i matrimoni fra indiani e europei, o per la descrizione dei costumi e della religione indigena.
In tema di fachiri la trasposizione salgariana è invece pedissequa e priva di spunti originali, forse per convenienza, dato che un’interpretazione negativa di queste figure è comoda e facile, o forse per mancanza di tempo da dedicare all’approfondimento della materia, preso com’era da scadenze editoriali pressanti. Comunque sia, l’augurio è che leggendo le pagine salgariane, anche quelle più “ingenue”, nasca nel lettore di ieri come in quello di oggi la voglia di scoprire e di approfondire nuovi mondi anche più di quanto abbia fatto l’autore stesso.




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