Gli Inglesi alla conquista del mondo.
La Compagnia delle Indie tra storia e letteratura
di
Francesca "Asia" Rossi



Le parole colonialismo e colonizzazione rappresentano un pezzo di storia dell’umanità.

Sono talmente intrise di significato da essere capaci ancora oggi di dar vita a dibattiti accesi.

Entrambe hanno cambiato la vita di molte persone, in modo positivo o negativo, per un arco di tempo molto lungo, portandosi dietro una scìa di avvenimenti che hanno contribuito a formare il mondo in cui viviamo oggi.

Se è vero che per capire il presente bisogna analizzare il passato, è anche vero che questa analisi non può ancora dirsi conclusa e le ragioni sono molteplici: da una parte l’argomento è molto vasto e un solo sguardo non riesce ad abbracciarlo tutto; dall’altra, però, si deve tenere presente che la messa a fuoco del fenomeno non deve né essere troppo generica né troppo dettagliata.

Nel primo caso, infatti, si rischia di trascurare fatti importanti, anche se all’apparenza minori, mantenendo cosi il livello di comprensione e di approfondimento in superficie. Una visione troppo globale non consente di osservare, ma solo di vedere, di cogliere il tutto senza saperlo spiegare, senza vederne le sfumature. Nel secondo caso, invece, una visione troppo particolareggiata consente di cogliere solo alcune delle sfumature suddette senza poterle studiare nel loro contesto, evitando di dar loro una forma.

In entrambi i casi lo studio rischia di diventare parziale.

Proprio perché l’argomento è vastissimo e complicato è, però, inevitabile compiere delle scelte stilistiche e di contenuto, adottare un punto di vista soprattutto nel caso di un articolo come questo in cui lo spazio è tiranno.

A questo punto si può obiettare che tutti gli studi, anche quelli che si reputano completi sono in realtà, in qualche modo, vittime della parzialità. In un certo senso questo è vero, in quanto in ogni tipo di studio l’autore inconsciamente mette un po’ di sé, delle idee che lo hanno formato e le stesse scelte suddette compromettono la ricerca della imparzialità assoluta (ammesso che sia possibile parlare di “assoluto” in questo caso).

Ciò che non deve essere fatto è confondere questo tipo di parzialità, che è inconscia, che solo l’esperienza, gli anni, lo studio, riescono a reprimere in parte, con la parzialità consapevole, che consiste nella scelta arbitraria di fatti e opinioni che sostengano alcune idee (a volte solo le proprie) a scapito di altre, spesso senza neanche valide argomentazioni. In quest’ultimo caso si cerca di dare forma alla Storia, piegarla al volere dell’autore, non tenendo conto del fatto che essa è già ben definita e che prima o poi romperà gli schemi in cui è stata costretta, rivelandone la fragilità.  

Dunque coerenza e obiettività devono essere le linee guida di qualunque tipo di studio, le discriminanti che guidano le scelte di contenuto e di stile.

In questo breve articolo ci si propone proprio di ricercare questi due elementi. Di certo non può essere completo ed esauriente, ma attraverso di esso si può tentare di spiegare almeno i meccanismi che stanno alla base dei fenomeni del colonialismo e della colonizzazione.

Il punto di vista scelto è quello storico-letterario. I fatti storici verranno confrontati con le idee e la visione che di questi aveva un grande autore italiano: Emilio Salgari. Attraverso i suoi scritti si cercherà di capire quale fosse l’opinione degli italiani e anche degli europei riguardo al colonialismo e alla colonizzazione.

L’attenzione di questo articolo si concentrerà sull’Inghilterra, una delle più importanti potenze coloniali e sulla Compagnia delle Indie Orientali. Entrambe sono conosciute e descritte da Salgari in molte opere, come il Ciclo dei Pirati della Malesia, che ha per protagonista uno dei suoi personaggi più famosi, Sandokan, l’uomo che si ribella allo strapotere inglese, che gli ha tolto le ricchezze, ma soprattutto la famiglia, costringendolo a diventare uno dei più temibili pirati in circolazione, la Tigre della Malesia...

Oggi i termini colonizzazione e colonialismo vengono usati indifferentemente per indicare lo stesso fenomeno, tuttavia hanno diverse sfumature di significato: per colonialismo si intende la predisposizione della mentalità e della civiltà europee che si è espressa concretamente nell’incapacità di avere con le altre civiltà rapporti che non fossero sopraffattori e distruttivi. Quindi il colonialismo è il retroterra culturale della colonizzazione e serve a svelarne la vera essenza: l’eliminazione delle civiltà diverse e l’estensione indiscriminata della propria. Il termine fu coniato alla fine del XIX secolo per indicare le ideologie e le pratiche politiche che mirano ad imporre il regime coloniale agli altri popoli. Esso implicava una supposta superiorità culturale dei Paesi colonizzatori e fu sentito dagli avversari del colonialismo come la legittimazione teorica delle sfruttamento e delle vessazioni che si erano sempre accompagnate alla colonizzazione europea. In questo modo l’accezione si connotò di significati negativi che si accentuarono in seguito, tanto che oggi il termine colonialismo è usato solo dai nemici del regime coloniale, oppure le due parole, colonialismo e colonizzazione, vengono usate indistintamente.

Il problema delle origini del colonialismo è molto complicato. Sebbene sia la civiltà greca che quella romana abbiano affermato una orgogliosa consapevolezza della loro superiorità attraverso le conquiste, il rapporto di sopraffazione economica e di distruzione dell’ethnos sembra un carattere peculiare della moderna colonizzazione europea. La premessa della svolta in questa direzione fu rappresentata, a grandi linee, dalla diffusione della concezione del mondo giudaico-cristiana sulla base dell’eredità del pensiero classico. Già le conquiste del pensiero greco, come la scoperta del carattere logico dei processi conoscitivi, l’adozione di un atteggiamento intellettuale di fronte alla natura, la distinzione dell’oggettivo dal soggettivo, avevano mosso la civiltà euromediterranea su vie diverse da qualunque altra. Quando poi, grazie alla vittoria del cristianesimo, si aggiunse il monoteismo etico e il senso della storia come serie significante di fatti, insieme con il carattere di proselitismo universalistico, ci fu un distacco totale. La civiltà europea si sviluppò su queste basi in epoca medievale e l’unico contatto con una civiltà diversa fu quello con la civiltà araba, rispetto alla quale c’erano comunque forti somiglianze.

Molto diverso fu invece il caso dell’incontro tra l’Europa e le Americhe: posta per la prima volta di fronte ad una realtà estranea alla propria, la civiltà europea si trovò nella necessità di elaborare (in un certo senso dal nulla) le categorie della conoscenza del diverso da sé e del rapporto con esso.

Il carattere magico-animistico delle credenze religiose delle popolazioni indigene, la pratica del cannibalismo, l’ignoranza di qualsiasi forma di scrittura fonetica, di materiali e attrezzi come il ferro e la ruota, radicarono fin dall’inizio nella mente dei conquistatori l’idea della connaturata inferiorità di quelli che vennero chiamati i selvaggi. Dato il quadro ideologico dell’uomo europeo del tempo, questa nozione aveva bisogno di una sanzione religioso-teologica. Fu proprio su questo terreno che si svolse la prima disputa sulla natura dei selvaggi e quindi sul significato da attribuire alla conquista e sulla sua legittimità. Dalle dispute cinquecentesche emerge un dato significativo: accanto all’incomprensione di tutto ciò che è diverso, si manifesta anche la capacità del pensiero europeo di riflettere criticamente su questa diversità alla luce di categorie etico-universali, in uno sforzo di conoscenza aperto alla tolleranza. Infatti la tarda scolastica spagnola rivendicò la validità del diritto naturale anche per gli indigeni del Nuovo Mondo e denunciò i crudeli soprusi dei colonizzatori. Nel 1537, poi, una bolla di Paolo III proclamava che gli indios erano veri uomini, liberi di disporre della loro persona e dei loro averi.

Tuttavia il carattere pratico della civiltà europea e la disuguaglianza nel rapporto di forze erano destinati ad avviare l’Europa sulla strada del colonialismo, attraverso lo sfruttamento economico dei territori conquistati e dell’acculturazione degli indigeni.

Verso la metà del Seicento i teorici del mercantilismo elaborarono quella che si può ritenere la prima coerente dottrina economico-politica colonialistica, basata su due punti fondamentali:

  • La conquista coloniale giova alla madrepatria perché serve a rifornirla a buon mercato di materie prime e di prodotti di consumo. Inoltre le colonie, assorbendo i prodotti nazionali, mantengono in attivo la bilancia commerciale;
  • La madrepatria ha dunque la necessità del monopolio sui traffici con i propri possedimenti coloniali.

Questa dottrina mercantilistica non è altro che il riflesso dello stadio commerciale-manifatturiero cui era pervenuto lo sviluppo economico dei Paesi più progrediti dell’Europa del tempo.

Nel Seicento il tipico rapporto economico che si stabilì tra madrepatria e colonie fu quello del commercio triangolare Europa-Africa-America-Europa secondo questo schema: esportazione in Africa di tessuti, chincaglieria, armi per l’acquisto di schiavi; esportazione di questi ultimi nelle Americhe; importazione dalle Americhe dei prodotti agricoli coloniali destinati al consumo o alla trasformazione. Non stupisce che il commercio triangolare, richiedendo capacità manifatturiera e una non indifferente disponibilità di capitali, avesse come protagonisti soprattutto gli inglesi e gli olandesi e solo in secondo ordine i francesi, mentre erano praticamente assenti gli spagnoli e i portoghesi.

A questo tipo di sfruttamento corrispose un quadro ideologico che si mostrava del tutto indifferente alla sorte delle terre conquistate e dei loro abitanti. Effetti completamente distruttivi ebbe la presenza inglese in Nordamerica: la sentenza secondo la quale un indiano buono è un indiano morto fu per il governo e per i coloni britannici la direttiva di comportamento verso le tribù indigene. Il moralismo puritano, il sentimento di elezione divina proprio della riforma e il carattere pratico-imprenditoriale, predisponevano la società inglese ad u rapporto di estraneità, intimamente razzistico nei confronti delle civiltà primitive [1].

Nell’Ottocento il colonialismo crebbe su nuove e più ampie basi per effetto della Rivoluzione Industriale. La società capitalistico-borghese uscita da questa rivoluzione segnò il culmine del colonialismo, sia per l’estensione del rapporto coloniale a tutti i continenti extraeuropei, sia per il carattere distruttivo che questo rapporto venne ad avere, subordinato all’esigenza di produrre e di vendere una quantità sempre più grande di merci.

Proprio per questo il colonialismo del XIX secolo abbandonò qualunque tipo di motivazione religiosa, fondandosi sull’ideologia laica del progresso intorno alla quale si era sviluppata la borghesia dell’Europa capitalistica: come all’interno dei vari Paesi la borghesia si credette investita della rappresentanza degli interessi di tutta la società, allo stesso modo, proiettata verso gli altri continenti, l’Europa borghese si convinse di essere investita di una missione civilizzatrice su scala mondiale [2].

Nonostante i propositi civilizzatori questo complesso di superiorità si rivelò fonte di distruzione delle culture dei Paesi colonizzati: l’uso delle merci europee, l’adesione alle fogge, anche ideali, che a quelle merci si accompagnavano, indebolì l’antico patrimonio culturale e le tradizioni, determinando anche una massiccia perdita d’identità delle genti delle aree coloniali.

Il modello inglese di impero del libero scambio e di colonie di popolamento avviate verso l’autogoverno non conobbe imitazione e assunse un carattere di marcato protezionismo, che pretendeva la totale dipendenza delle colonie dalla madrepatria [3]. Inoltre con il nascere delle concentrazioni monopolistiche e la spartizione del mondo da parte delle potenze imperialistiche europee, alla colonizzazione venne a mancare quel carattere di avventura e audacia che la contraddistingueva.

Dunque il Paese in cui si sviluppò più compiutamente l’ideologia colonialistica fu la Gran Bretagna. La conquista coloniale divenne per gli inglesi una vera e propria missione universalistica assegnata dalla provvidenza alla razza anglosassone per promuovere nel mondo la causa del progresso. Questa impostazione, nonostante l’aggressivo potenziale imperialistico, fu la causa per cui il colonialismo inglese evitò gli estremi di sfruttamento delle popolazioni indigene cui giunse il colonialismo franco-belga. Infatti riuscì a diffondere leggi e istituti moderni, un embrione di istruzione e di vigilanza sanitaria e cercò di limitare consuetudini e rituali di indubbia crudezza, dimostrando una qualche attenzione per le tradizioni culturali delle genti con cui venne a contatto. Inoltre un obiettivo più o meno costante fu la creazione di élites indigene cui affidare una parte dell’amministrazione.

La mentalità ed il rapporto colonialistici entrarono in crisi agli inizi del Novecento prima sul terreno culturale e poi su quello dei rapporti di forza. Il progressivo abbandono della prospettiva eurocentrica operò un grande mutamento nell’atteggiamento della coscienza europea verso le civiltà degli altri continenti. A ciò contribuirono lo sviluppo di nuove discipline come l’etnologia e l’antropologia, che cancellarono sul piano scientifico l’idea di supremazia della civiltà bianca e promossero la conoscenza priva di pregiudizi delle società indigene, la nascita di associazioni umanitarie e pacifiste, l’azione del movimento operaio e socialista e la teoria leninista [4].

Nel periodo tra le due guerre mondiali il colonialismo divenne patrimonio delle forze politiche più conservatrici, perdendo, cosi, ogni residua giustificazione ideologico-culturale.

Il crollo dei grandi imperi coloniali destò unanime compiacimento nell’opinione pubblica, anche se in alcune occasioni si vide quanto ancora tenace fosse la predisposizione eurocentrica a giudicare in termini di civiltà e barbarie [5]. Ciò era anche frutto delle difficoltà incontrate dalla mentalità europea nell’accettare la fine del dominio del mondo bianco e nel fare i conti con i sentimenti di rivalsa e di diffidenza dei popoli ex coloniali, i quali posero l’accento sul neocolonialismo di cui continuavano ad essere vittime. Con questa espressione essi intendevano non solo il permanere dei rapporti di sfruttamento e l’ingiusta distribuzione delle risorse mondiali [6] o la sopravvivenza di forme di ingerenza politica, ma in un senso più ampio il potere che la civiltà bianca era ancora in grado di esercitare.

In questa situazione si faceva sentire anche l’adozione, da parte della classe dirigente dei nuovi Paesi, di elementi modernizzatori che si rivelavano veicoli dei modi di vita e degli ideali della cultura da cui erano scaturiti. Il tentativo di recuperare l’antica identità portò alla nascita di ideologie a sfondo xenofobo, talvolta di tipo religioso [7].

Il colonialismo resta, così, una pesante eredità che ancora oggi mette complica i rapporti tra i Paesi colonizzatori e i Paesi un tempo colonizzati.

Dunque, la colonizzazione è l’estensione concreta della sovranità da parte di Stati più forti su territori disabitati o abitati da popolazioni la cui organizzazioni politica, economica e sociale si presenta come più debole. La colonizzazione europea prese le mosse dai grandi viaggi transoceanici e dalle scoperte geografiche, determinando la diffusione su scala mondiale dei popoli del vecchio continente e della loro civiltà.
Più in dettaglio la colonizzazione ebbe delle vistose conseguenze sotto due punti di vista:

  • Dal punto di vista demografico furono determinanti non solo le migrazioni degli europei nelle nuove terre, ma anche il contatto degli indigeni con le popolazioni bianche, che fu causa della decimazione o della scomparsa dei gruppi etnici degli stessi indigeni; il lavoro nelle miniere, la sottoalimentazione, le malattie sconosciute al mondo indigeno provocarono una catastrofe demografica nel XVI sec. Anche per riempire questo “vuoto” si ricorse al trasferimento forzato dalle coste dell’Africa occidentale verso le Americhe di rilevanti quote di schiavi negri, che daranno vita, mischiandosi alle popolazioni indie e bianche ad impasti etnici singolarissimi;
  • dal punto di vista economico e sociale la colonizzazione corrispose ad una diffusione e redistribuzione delle colture su scala mondiale: per esempio piante alimentari sconosciute agli europei vennero introdotte dall’America nel vecchio continente[8], nell’Africa tropicale vennero introdotti riso, granoturco, patata dolce e manioca e a Ceylon e Giava venne introdotto il caffè. I cambiamenti portati dalla colonizzazione hanno però prodotto un effetto di degradazione delle economie indigene e delle connesse strutture sociali. Infatti i colonizzatori si imbatterono in società che non conoscevano la proprietà privata della terra, che apparteneva invece alla comunità del villaggio. Gli europei distrussero tale struttura, confiscando a proprio vantaggio la terra dei nativi (come accadde nelle Americhe), o decretarono la fine della proprietà comune a vantaggio di un nuovo ceto di proprietari terrieri locali (come avvenne in India). A queste misure fecero seguito la riduzione delle colture di sussistenza e l’introduzione di prodotti destinati all’esportazione. Questo tipo di sfruttamento provocò l’assottigliamento delle risorse alimentari delle popolazioni, l’abbandono delle campagne e l’affollamento degli espulsi dal settore agricolo e artigianale nelle città costiere.

Come si è già avuto modo di constatare, la protagonista indiscussa della colonizzazione europea del XVII e XVIII sec. fu l’Inghilterra. La colonizzazione inglese prese l’avvio dalla costituzione nel 1600 della Compagnia delle Indie Orientali. L’East India Company fu la più potente società per azioni mai vista, una sorta di multinazionale ante litteram, che arrivò a decidere le sorti di un quinto dell’umanità.

La Compagnia aveva sede a Londra e durò fino al 1858.

Sicuramente i lettori di Emilio Salgari la conoscono benissimo, visto che era proprio contro le sue navi che si scagliavano i pirati di Mompracem. Sandokan è un personaggio di fantasia, ma il suo modo di agire, le tecniche e le imbarcazioni utilizzate per agganciare le navi nemiche sono una realtà; per esempio, un paio di secoli fa, nelle acque indo-malesi, era molto frequente incontrare i praho di cui parla Emilio Salgari nei suoi romanzi. E’ impossibile, poi, dimenticare uno degli antagonisti più celebri di Sandokan: James Brooke il Rajah di Sarawak. Anch’egli non era un personaggio inventato e, prima di ottenere la corona del Sarawak, aveva lavorato proprio per la Compagnia [9]. Salgari non ne parla, ma ai tempi del Rajah bianco la Compagnia era ormai in declino e l’autorità di Brooke ne era una prova evidente.

La politica commerciale della Compagnia si basava proprio sull’assenza di qualunque forma di concorrenza. Tutto ruotava intorno a due semplici parole: libero scambio. Libero purché anglosassone, ovviamente [10]. La Compagnia agiva come un vero e proprio stato sovrano: coniava moneta, amministrava la giustizia, aveva una bandiera propria e addirittura un esercito formato da guardie private, i famosi sepoys. Questi ultimi nei romanzi di Emilio Salgari fanno spesso delle magre figure, ma in realtà erano dei veri e propri mercenari pronti a tutto e molto astuti.

Da cosa può derivare l’immenso potere della Compagnia? La risposta è piuttosto complessa, perché furono molti i fattori in gioco: la forza militare, l’astuzia politica, la presenza di ingenti capitali e... il pepe. Infatti le spezie erano l’unico modo per conservare i cibi in un’epoca in cui i frigoriferi non esistevano ancora. Dunque chi ne controllava il commercio faceva fortuna. Di solito le spezie prodotte in Asia arrivavano in Europa passando per i suq mediorientali, affollati di mercanti arabi e veneziani. Poi nel 1498 Vasco De Gama doppiò il Capo di Buona Speranza, raggiunse Calicut, dimostrando che l’Oriente poteva essere raggiunto senza passare per il Mediterraneo e, cosi facendo, soffiò ai veneziani una parte fondamentale dei loro traffici.

Gli inglesi non persero tempo e si servirono delle rotte di De Gama per il loro commercio. Inoltre ebbero un’idea brillante: far amministrare tutti i loro affari con l’Oriente proprio alla Compagnia delle Indie Orientali. Infine, la regina Elisabetta I firmò un decreto con il quale autorizzava alcuni mercanti a navigare verso le Indie. Beneficiarono di questo provvedimento proprio i 218 azionisti della Compagnia [11].

A dire il vero la Compagnia era ciò che oggi viene comunemente definito una “s.p.a”, o, per utilizzare un termine più vicino alle multinazionali e al commercio moderni, una joint stock company. Ma di fatto la East India Company riuscì a conquistare questo contratto in esclusiva e nel 1601 organizzò la prima spedizione in Oriente.

Ma cosa si intende esattamente per Indie Orientali?

Si può dire che il concetto sia piuttosto ampio, dal momento che comprendeva le isole africane dell’Oceano indiano, l’India vera e propria e il Sud Est asiatico. Se è vero che tutto cominciò con il pepe, è anche vero che gli inglesi allargarono fin da subito le possibilità di commercio, scambiando per esempio, l’oppio indiano in Cina col tè locale, che veniva poi rivenduto a Londra [12]. La prima base orientale della Compagnia fu Bantam, nelle Molucche, ma ben presto le stesse basi dei mercanti sorsero anche in grandi città come Calcutta e Bombay. Nell’Ottocento il fatturato della East india Company superò addirittura il PIL della Gran Bretagna, il numero di persone amministrare arrivò a circa 250 milioni e gli azionisti divennero 1700 [13].

Per conquistare tutto questo potere gli inglesi seppero dosare egregiamente l’uso dei compromessi con quello della forza, riuscendo sempre a sfruttare ogni situazione a loro vantaggio. A questo proposito vale la pena ricordare alcuni avvenimenti: nel 1602 a Sumatra James Lancaster, capo della prima spedizione, acconsentì alla richiesta di un sultano di avere in dono una vergine anglosassone, offrendo la propria figlia; nel 1757/’58 il barone Robert Clive occupò il Bengala con i suoi sepoys, facendo pulizia etnica dei francesi che ci vivevano e diventando capo di Stato.

Ma è nel 1839 che gli inglesi dimostrarono tutta la loro prepotenza in nome del guadagno: la Cina, infatti, vietò la vendita di oppio sul suo territorio e la Compagnia delle Indie scatenò una guerra in cui intervenne perfino la corona britannica, in nome del diritto di vendere oppio e dell’obbligo dei cinesi a comprarlo [14]. La Compagnia delle Indie inseguì il profitto e il potere, ma nel 1857 la situazione si ribaltò completamente: i sepoys si ribellarono ai loro padroni, dando vita ad un conflitto che per gli inglesi fu un ammutinamento, per gli indiani la guerra di indipendenza.

Questo avvenimento segnò la fine della Compagnia. Nel 1858 il parlamento inglese approvò il Government of India Act, una legge con cui si revocava il famoso decreto di Elisabetta I e i beni della East India Company venivano nazionalizzati. Fu cosi che nacque l’impero inglese.

Gli inglesi, dunque, non erano solo audaci conquistatori, ma anche abili uomini d’affari. A questo proposito occorre ricordare l’importanza della coniazione di monete da parte della East India Company. Questo è un punto che non può essere sottovalutato: battere moneta vuol dire mettere in circolazione non solo modelli storici propri, ma la propria economia in un Paese straniero. E’ un po’ come una massiccia trasfusione.

A questo si aggiunge la politica di libero commercio portata avanti dagli inglesi, che non è altro se non una maschera, un’apparenza dietro cui si nasconde il solo e unico commercio consentito: quello inglese. L'egemonia di questo popolo si estende dal commercio, ma passo dopo passo, spedizione dopo spedizione, riesce a penetrare la storia e la cultura di molti Paesi orientali. E sarà proprio a questo tipo di potere, a questa base imperialistica che si ribellerà un uomo che ha segnato la Storia del Novecento: il Mahatma Gandhi.

Grazie a lui l’India ritroverà la libertà e l’identità perdute che oggi, nonostante i gravosi problemi che il Paese si trova ad affrontare [15], l’hanno resa uno degli astri nascenti dell’economia asiatica insieme alla Cina. Dunque la colonizzazione è un fenomeno molto complesso, positivo per certi aspetti (per esempio l’abolizione di usanze discutibili, come il rogo delle vedove) e negativo per altri ( per esempio il famoso “paternalismo inglese” con il quale la East India Company e i coloni inglesi hanno esportato valori, leggi e politica della società anglosassone).

Se è vero che l’argomento non può essere completamente esaurito in poche pagine, è anche vero che molti scrittori hanno tentato di darne une personale versione scaturita da emozioni, idee, studi, creando cosi delle visioni diverse di questo fenomeno, ma non per questo meno aderenti alla realtà.

Emilio Salgari è certamente uno degli autori più conosciuti che abbia affrontato le tematiche del colonialismo, della schiavitù, della diversità. Ciò che ancora oggi ci si chiede è in che modo sia riuscito a raccontare il colonialismo, quali siano i confini tra realtà ed immaginazione nei suoi romanzi e quale fosse il suo pensiero riguardo alle problematiche da lui raccontate nei suoi libri. Infatti non bisogna dimenticare che Salgari fu un uomo del suo tempo, che visse, anche se non sempre in prima persona, i cambiamenti, le paure, i dubbi, le speranze della sua epoca.  

Come è riuscito a trasformare tutto questo in letteratura?
Molto interessante sarebbe ragionare, prima di tutto, sui “personaggi di fantasia”, come  Sandokan e Yanez. C’è qualche spunto autobiografico, Salgari ha messo qualcosa di sé, oppure ha inventato semplicemente, o ancora si è ispirato a dei modelli realmente esistiti?

Per esempio Bram Stoker, creò Dracula dal personaggio storico Vlad Tepes Dracul, che però non era un vampiro, e  qui sta la componente fantastica. A dire il vero, poi, la stessa componente è anche antropologica, visto che Stoker non inventò i vampiri, ma fece accurate ricerche su di loro, un po’ come Salgari le fece sui pirati, ma, ovviamente, in un contesto del tutto diverso.

Sicuramente Salgari mise sempre qualcosa di sé nei personaggi che creò. Un esempio su tutti può essere rappresentato da Yanez, il furbo e abile compagno d’avventura di Sandokan con il vizio del fumo, che condivideva proprio con il suo creatore.

Si può anche dire che fece accurati studi sui pirati e sul loro mondo, sul colonialismo, sulla stessa East India Company e su ogni argomento che trattò. Non lasciò mai nulla al caso, ma probabilmente, almeno per quanto riguarda la creazione di personaggi come i famosissimi Sandokan e Yanez, oggetto ancora oggi di dibattiti, non si ispirò a nessun personaggio storico [16]. Inoltre Salgari non ebbe paura di affrontare questioni che non visse direttamente: infatti una buona regola di scrittura è quella di scrivere soltanto di ciò che si conosce.

Ma Salgari non lo fece affatto: si servì dei libri e delle ricerche per creare dei mondi nuovi, aderenti alla realtà storica del momento, ma nello stesso tempo fantastici, a volte fiabeschi[17]. Creò dei veri e propri romanzi degni di questo nome, in cui la verità e la finzione narrativa si compenetrano alla perfezione, come è giusto che sia in un libro d’avventura.

E’ anche vero, però, che molti autori contravvengono alle regole come quella suddetta, se hanno dei motivi importanti: dire qualcosa di nuovo, creare un precedente letterario, sperimentare nuove strade, creare vie d’uscita alle regole. Tutte cose che Salgari fece. Tra l’altro va precisato che le regole di scrittura non sono dogmi, ma dritte, consigli. Ognuno ha il diritto di tentare altre strade e i risultati possono essere notevoli.

Forse è proprio questo il genio, lo spirito artistico.

Salgari visse un momento storico importante, lo vide con i propri occhi, lo descrisse con la penna, ma spesso non si schierò apertamente. L’Italia e l’Europa accettavano il colonialismo, anche se non totalmente. E Salgari descrisse le ragioni dei favorevoli, ma anche quelle dei contrari.

Ancora oggi i critici dibattono riguardo alle idee di questo scrittore. A quanto pare ebbe degli atteggiamenti paternalistici ed eurocentrici nei riguardi delle popolazioni colonizzate, forse per alcuni versi considerò la civiltà occidentale e le radici cristiane di questa superiori alla cultura orientale. Si dimostrò cattolico e positivista nello stesso tempo, ma non fu per ambiguità o per incapacità. D’altro canto seppe osservare con acume le diversità tra occidentali ed orientali e mettere in luce i difetti di entrambi.

Si deve, però, ricordare l’autore non era del tutto libero di esprimersi: doveva stare attento a non urtare il pensiero e l’opinione pubblica dell’epoca. Un passo falso voleva dire la fine del suo lavoro e la povertà certa per lui e la famiglia. Questa scelta può essere discutibile, può essere compresa o no, ma non è segno di codardia, poiché forse Salgari non si schierò sempre in maniera chiara, ma  prese delle posizioni: per esempio si dimostrò spesso aperto nei confronti delle nuove conoscenze e delle nuove tecnologie, mise in evidenza le contraddizioni insite nel colonialismo inglese, ma, vale la pena ripeterlo, era un uomo del suo tempo.

Più moderno della media, ma comunque un uomo del suo tempo.

Forse mettersi nei suoi panni può aiutare a capire: si pensi al conflitto che sicuramente doveva provare sentendosi come diviso in due: il padre di famiglia che deve provvedere ai suoi cari e può solo contare sulla scrittura, quindi meno passi falsi commette, meglio è (anche perché non solo rischia di perdere il lavoro, ma anche la reputazione e tempo fa questo era un grosso problema che si ripercuoteva anche sulla famiglia) e lo scrittore, lo spirito libero che vorrebbe esprimersi senza timore, che ha diritto alle idee. E’ una situazione non invidiabile e spesso Salgari non seppe porre rimedio a questa “scissione”.

Anzi, questo dualismo tornava anche nelle sue opere: negli eroi come Sandokan, per esempio, che non hanno legami, o che comunque li hanno persi per varie ragioni strada facendo. Questo era per Salgari un espediente per lasciarli liberi di agire. E chissà che non fosse anche un suo desiderio nascosto.

Si intende dire che forse l’autore riusciva ad immedesimarsi a tal punto in quegli uomini che aveva creato (e spesso succede a tutti gli scrittori) da dar loro, attraverso le storie, la libertà di agire che egli spesso non poteva avere, rendendo liberi i suoi personaggi e di riflesso anche lui, nei più intimi recessi della sua fantasia.






Bibliografia:

·        Enciclopedia Europea Garzanti, terzo volume, 1977, lemma "colonialismo".

·        Un Continente in appalto di Nino Gorio, Focus Storia, numero 24, ottobre 2008.

·         www.wikipedia.it - lemma "colonialismo"


[1] Stesso discorso vale per la colonizzazione olandese. Gli spagnoli, invece, pur impiegando schiavi, ne reputavano disonorevole il commercio, lasciandolo tutto nelle mani dei negrieri inglesi, olandesi e in misura minore francesi. Fonte:”Enciclopedia europea Garzanti” terzo volume, 1977, lemma “colonialismo”.

[2] Al centro di tale convinzione ci fu non solo il culto del progresso tecnologico, ma anche le teorie scientifiche di Darwin e l’evoluzionismo, che diffusero nell’opinione pubblica l’idea che esistesse una naturale progressione dagli stadi inferiori a quelli superiori dello sviluppo individuale e sociale e che i popoli non europei, ancora “arretrati” avrebbero potuto avvantaggiarsi del contatto con i bianchi. Inoltre la cultura positivistica radicò l’antico convincimento della “naturale” superiorità della civiltà europea, sottolineando l’azione limitatrice del clima, dell’ambiente geografico e dei tratti somatici nei confronti delle civiltà extraeuropee. Fonte: ”Enciclopedia europea Garzanti” terzo volume, 1977, lemma “colonialismo”. 

[3] E. G. Wakefield fu il primo a concepire e a propagandare la necessità di una sistematica colonizzazione d’insediamento con possibilità di autogoverno, collegando questo progetto con il crescente bisogno da parte dell’industria inglese di nuovi mercati. Inoltre nel 1825 Londra aveva abolito il monopolio commerciale con le colonie e a partire dal 1840 ridusse anche la “zona protetta” del commercio coloniale. Fonte:”Enciclopedia europea Garzanti” terzo volume, 1977, lemma “colonialismo”.

[4] La teoria leninista indicava nei popoli coloniali i naturali alleati dei lavoratori dei Paesi industrialmente avanzati nella lotta per la rivoluzione socialista. Fonte:”Enciclopedia europea Garzanti” terzo volume, 1977, lemma “colonialismo”.

[5] Per esempio nella guerra d’indipendenza algerina (1954/’62), crisi di Suez (1956), disordini nel Congo (1960/’62), guerra israeliano-araba (1967) 

[6] Per esempio attraverso le multinazionali, viste come nuovi sistemi di predominio economico.

[7] Per esempio il ripristino del codice cranico e del sistema metrico decimale in Libia nel 1974.

[8] Per esempio il granoturco, la patata ed il pomodoro.

[9] James Brooke visse dal 1803 al 1868 e fu contemporaneo di Garibaldi. La sua storia è molto avventurosa ed interessante, tanto che nel Sarawak, regione che appartiene alla Malesia, c’è una città  chiamata Kuching che conserva ancora i ricordi del “Rajah bianco”. Nato nel 1803 a Benares da una famiglia inglese, Brooke lavorò per la East India Company fino al 1938, anno in cui passò al servizio del Sultano del Brunei, per conto del quale represse una rivolta di daiacchi, i cacciatori di teste del Borneo. In cambio ricevette la corona del Sarawak, che governò dal 1842 fino alla sua morte. La East India Company accettò l’autorità autonoma di Brooke perché quest’ultimo non solo era un gran cacciatore di pirati, ma anche una sorta di “gendarme” delle rotte mercantili. Fonte: articolo “Un Continente in appalto” di Nino Gorio da  Focus Storia” numero 24 ottobre 2008.

[10] Infatti i francesi, che nel 1665 avevano tentato di fondare una loro Compagnie vennero sbaragliati dagli inglesi senza tanti problemi. Fonte: articolo “Un Continente in appalto” di Nino Gorio da  Focus Storia” numero 24 ottobre 2008.

[11] Vale la pena citare uno stralcio del decreto in cui la regina autorizzava i mercanti a navigare “a proprie spese, per l’onore del regno ed il progresso del commercio, in uno o più viaggi con adeguato numero di vascelli”. Fonte: articolo “Un Continente in appalto” di Nino Gorio da  Focus Storia” numero 24 ottobre 2008.

[12] Proprio da qui nasce la proverbiale golosità degli inglesi nei confronti del tè.

[13] Le cifre sono tratte da “Un Continente in appalto” di Nino Gorio da  Focus Storia” numero 24 ottobre 2008. 

[14] Gli aneddoti sono tratti da “Un Continente in appalto” di Nino Gorio da  Focus Storia” numero 24 ottobre 2008.

[15] Proprio durante l’elaborazione di questo articolo sono avvenuti i terribili attentati agli hotel più prestigiosi di Mumbai (26/11/2008). Il bilancio è stato di 151 morti, 327 feriti e decine di ostaggi. Questa situazione è emblema di uno dei problemi più grandi che l’India ed il mondo si trovano ad affrontare: il terrorismo di matrice islamica. Nel Paese orientale questo avvenimento ha, però, anche un’altra chiave di lettura: il conflitto mai risolto tra indù e musulmani.

Finché esisterà questo contrasto, l’India non sarà mai completamente libera. 

[16] Ma non fece sempre cosi: si è gi avuto modo di parlare nel presente articolo di Lord James Brooke, antagonista di Sandokan, ma anche personaggio realmente esistito.

[17] Anche perché Salgari non scriveva dei saggi ma dei romanzi. E’ opportuno avere sempre chiara in mente la distinzione tra questi due tipi di letteratura (e non solo tra questi due) ogni volta che si imposta una critica ad un’opera.

E.Salgari
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Testi e informazioni per questo articolo a cura
della "Tigrotta" Francesca "Asia" Rossi

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