Un'avventura per la libertà
Fabrio Negro

( un sorriso beffardo misto a disprezzo ) E’ strano. Se si guarda una carta del planisfero da certi punti di vista, il mondo l’abbiamo fatto noi, miei piccoli, noi europei, soprattutto le potenze atlantiche come Spagna, Francia, Portogallo e Olanda. Tutto è cominciato quando uomini arditi e sovrani insaziabili hanno avuto in mano fucili, pistole e poi anche i cannoni. La “conquista del mondo”, miei piccoli, è cominciata con l’arrivo delle truppe spagnole in America, o se volete, già con le tre caravelle di Colombo. La Spagna per mezzo di Cortez, Almagro e Pizarro, conquistò il sud e il centro-america. Quanti massacri compirono con le loro armate, quanti assassini miei piccoli! Lo stesso fecero gli inglesi nell’Asia.
Ma, fondamentalmente alcuni paesi hanno scelto di farsi conquistare . . . diciamo. E’ il caso del Giappone, il quale adottò i fucili, quand’era ancora libero, solo per poco tempo, denunciandoli poi come armi illegali. E' questa in sostanza, miei piccoli, la dissonanza che divide noi occidentali, anzi, noi bianchi, dagli altri. I giapponesi, abbandonarono l’uso delle armi da fuoco, poiché per la spada o per la loro katana, avevano un vero culto. Fu facile conquistare il paese quindi, ai forti europei.

Verso la fine del ‘700, miei piccoli, è l’Inghilterra, la Signora d’Oriente, il leopardo ingordo. L’India, la Malesia, il Borneo, e altri grandi luoghi nella Sonda, vennero prese dagli anglo-sassoni. Nessuno contava più i migliaia di villaggi arsi, le navi che coprivano il fondo del mare, i cadaveri sanguinanti e barbaramente torturati di miliardi di uomini, donne, bambini, miei piccoli. Alcuni venivano esportati come schiavi, altri arruolati in eserciti speciali, o appunto, ammazzati! Fossero stati essi malesi, indiani, dayaki, cinesi o arabi, a loro poco importava. Erano possessori di ricche piantagioni, bellissime merci, materie prime e pietre preziose, ecco cosa importava loro, miei piccoli.

La cosa curiosa è che il pretesto degli inglesi, ai quali si erano aggiunti Olanda, Portogallo, Danimarca e Spagna, era quello di civilizzare e imporre la propria cultura a quegli uomini che definivano selvaggi. Ma la loro cultura, miei piccoli, ed è anche questa una grande differenza, e' molto meno materiale della nostra, molto più filosofica, libera e armoniosa. Voi non avete visto quei luoghi, ma io si. Come emozionano i colori dei sari delle indiane, le cerimonie dei guerrieri dayaki, le ricchezze dei templi buddisti, tutti così ricercanti la pace dei sensi, devoti alla loro religione! . . .Ma questa è un'altra storia .

Allora, molti provarono a ribellarsi al giogo europeo, dove questo premeva di più. In India vi fu un ammutinamento dei sipai, i soldati indigeni che le potenze europee avevano reclutato, e Delhi, Calcutta, Bombay, il Mysore che con Tippu Sahib già aveva cercato di sollevarsi, il Bangalore e altre località vennero lavate col sangue di centinaia di uomini e l’esercito inglese, se non venne disfatto, subì una sconfitta morale, lasciando morto sul campo anche l’onore, miei piccoli.

In Sudan, in cui la fame Europea si era pure spinta, insorsero i madhisti, contro il generale Gordon. Questi fanatici, devoti al Madhi, che ritenevano successore di Maometto, erano si un’accozzaglia di disperati, ma galvanizzati da una forza spirituale, comune a quasi tutti gli orientali. ...Toh! Un altro abisso tra noi e loro, miei piccoli. Ma i madhisti erano peggio dei barbari, e forse meritavano davvero di morire distrutti, uno per uno. Ecco, forse uno dei pregi dell’Inghilterra in India, fu quello di cercare di estirpare il modo dalla setta dei thugs, altri fanatici formidabili. Questi, devoti alla dea indiana della morte, Kalì, hanno come scopo, per guadagnarsi il paradiso di quell’inumana signora, quello di sacrificare più uomini possibile, strangolandoli con lacci o fazzoletti. Un altro merito è quello di cercare di prevenire gli oni-gomon o di eliminare un’altra setta, quella dei dacoiti, gli avvelenatori. Ma è poco in confronto a ciò che hanno commesso!

Vi voglio raccontare una storia, miei piccoli, di quando non ero ancora in ritiro, di un mio viaggio a Ceylan, quando ero un marinaio, il primo ufficiale della “Savoia”, uno splendido brigantino a due alberi e ben armato, il cui capitano, Guido Altieri, era stato incaricato di impedire il contrabbando di the, tabacco, spezie e perle tra l’India meridionale e l’Australia, e di cercare di sgominare le bande di bracconieri cinesi che battevano le giungle per uccidere le tigri, le cui ossa sono molto utili alla medicina cinese e molto pagate. I contrabbandieri non erano già pirati malesi o indigeni, ma soldati disertori, che fino ad allora nessuno era riuscito né a vedere, né a prendere e né a fermare. Ero già stato un paio di volte a Ceylan, ed ero diventato molto amico di un indiano che campava di pesca, Simur.

 

La “Savoia” aveva gettato le ancore all’entrata della baia di Palk, dinanzi all’omonimo stretto. Gli ufficiali, tolti quelli che avevano ottenuto un periodo di licenza, dovendo il brigantino, sostare fra Ceylan e l’India per diciotto mesi, restarono a bordo. Io ero fra i primi. Con alcuni camerati sbarcammo al porto di Jafna, con l’incarico, quantunque in libertà, di tenere gli occhi aperti. Quando ero più giovane ero piuttosto taciturno e ligio, anche se non ero in servizio. A differenza dei miei compagni, che sarebbero entrati a spendere i loro soldi in qualche taverna o bordello o rischiandoli al gioco. Io mi diressi verso il molo dei pescatori, dove speravo di incontrare il mio amico, il quale non mi avrebbe rifiutato un alloggio e il cibo per tutti i giorni. L’ultima volta l’avevo salvato da una tigre che lo stava per divorare, e per questo mi aveva detto “ Sono tuo, anima e corpo!” Non dubitavo quindi della sua accoglienza. Comprai uno stupendo manjipur completamente nero, cavallo robusto e coraggioso, originario dell’omonima zona dell’India settentrionale e dell’Assam. Al primo colpo che gli detti, col calcio del mio grosso fucile di mare, il cavallo partì velocissimo, alzando un gran polverone. Evitando le vie affollate della città, investite degli echi di ramsinga, hauk e sitar, il mio morello correva celere fra le campagne minacciando di travolgere i contadini disattenti. Arrivai immediatamente al porto dei pescatori, il quale si trovava un po’ più a nord della città. Potevo vedere distintamente la “Savoia”, se salivo su una rupe che scendeva a picco sull’oceano. Simur era appena tornato dalla pesca. Lo vidi ormeggiare il suo veloce patile e gettare le reti sullo imbarcadero. Dopo aver legato il cavallo e essermi messo il fucile a bandoliera lo raggiunsi. Mi abbracciò e baciò a più riprese, come se fossi un dio vivente. Mi fece entrare nella sua palafitta, di modeste apparenze, ma confortevole dove mi offerse dell’eccellente toddy e della carne fredda, regalandomi poi un profumatissimo kretek, piccolo sigaro aromatizzato ai chiodi di garofano. Verso sera, quando Simur ebbe messo a seccare tutti i pesci presi, ed io ebbi fatto una lunga passeggiata nella vicina boscaglia, ci ritirammo nella capanna. Eravamo nel letto da u paio d’ora, quando udimmo delle secche detonazioni e urla, urla di paura, dolore e rabbia . Io uscii fuori dalla palafitta e guardai ad ovest. All’orizzonte di vedeva un cupo bagliore, mentre le detonazioni continuavano a susseguirsi con estremo fragore. Simur mi raggiunse.

- Sahib, cosa succede ? – mi chiese un po’ impaurito

- Non li odi, questi spari ? -

- Sono cacciatori, vero sahib? -

- No. Queste sono carabine inglesi. Sicuramente un altro massacro! – ruggii io con rabbia.

Tornai dentro mi vestii, presi le mie armi e dissi all’indiano di imitarmi.

Simur non possedeva che una scimitarra e una vecchia pistola, comunque buona a cacciare del piombo in qualche testa calda. Montammo a cavallo, tutt’e due sul majipur, non avendone altri.

- Amico, dove possiamo fuggire? Io già ho l’idea che gli inglesi, o chi per essi, abbiano abbruciato tutti i rifugi di voi pescatori, magari lasciandoveli dentro. Certo darebbero venuti a visitare anche il tuo. Dimmi, Simur, dove fuggire? -

- Al di là della foresta, sahib, c’è il mio villaggio, dove sono nato. -

- Va bene, andiamo a conoscere la tua famiglia. -

- No, sahib. Non ci sarà nessuno ad aspettarci – disse l’indiano con incredibile commozione – la mia famiglia me l’hanno uccisa quand’ero bambino. Ma di sicuro sarà ancora vivo il mio amico Bangi. -

Spronai il mio cavallo che s’addentrò nella tenebrosa giungla con coraggio ammirabile. Devo dire che chi mancava un po’ di coraggio, ero io. Attraversare quella intricata foresta, di notte, quando i grandi felini si mettono in caccia, con un solo fucile, mi metteva un sudore freddo indosso. Non di meno non tradii la mia apprensione, anche per non perdere d’animo il mio amico, il quale si sarebbe sentito perso senza di me. Avanzavamo con gran fatica, dovendo sovente aprirci il passo tra il vasto ed enorme fogliame. Per due giorni marciammo fra quella volta di verzura, riarsi dal sole e dalle alte temperature, facendo due sole brevi soste, lungo un ruscello, poi finalmente, all’alba del terzo, giungemmo in una vasta radura, davo pascolavano tranquillamente tre o quattro dozzine di mucche .

- E qui, sahib, il villaggio si trova in mezzo alla radura, oltre quella collina – mi disse Simur.

Allora spronai il majipur, convinto che non fosse affatto stanco, non avendo ancora galoppato, e in capo a due minuti giungemmo sulla cima della collina. Sotto s’apriva un’ampia valle nel cui mezzo sì, sorgeva un villaggio, ma ancora fumante. Delle grandi capanne non si scorgevano che poche macerie ridotte in tizzoni incandescenti. Un odore nauseante di carne bruciata s’espandeva per l’aria, segno che chi aveva bruciato quelle case, aveva lasciato dentro i loro abitanti.

- No! Il mio villaggio! Siva ci ha maledetto, sahib! – esclamò l’indiano in preda ad un vivo dolore.

Senza indugio, scendemmo per la valle, arrestandoci davanti al villaggio di fuoco. Non potei trattenere un moto di ribrezzo nel vedere cinque o sei scheletri in mezzo alla venere svolazzante. Un poco più lontano vidi il cadavere di un cavallo, che il fuoco non aveva raggiunto. Mi avvicinai a guardarlo, scacciando con un moto nervoso le mosche che già si provavano a leccare il sangue. Aveva ricevuto un superbo colpo di scimitarra sotto il collo, che doveva avergli troncato la carotide. Vicino alla sella scorsi un gallone inglese da spalla, col grado di tenente, lo raccolsi, senza dargli dapprima tanta importanza, infilandomelo nella borsa.

Simur aveva iniziato, colle lagrime agli occhi, la sua preghiera davanti ai cadaveri di quelli che dovevano essere stati i suoi amici, inginocchiandosi sull’erba calda e inchinandosi più volte. Nel guardarlo provai una stretta al cuore, un nodo in gola, e non potei fare a meno di asciugarmi un luccicone, quando lo vidi battere i pugni in terra e gridare mentre piangeva.

- Sahib, potente! – mi disse tra i pesanti singhiozzi – tu che hai salvato Simur, vendica i miei amici! Tu che sei potente! -   

- Si, amico mio, te lo prometto – non potei esimermi dal dirgli.

Non avrei mai voluta fare quella promessa. Anche pronunciandola sapevo che per mantenerla sarei dovuto andare incontro all’Inghilterra e alla sua potenza, perché il grado che avevo trovato era di un’uniforme inglese, di chi doveva aver commesso quella barbarie. Ma l’avevo fatta e se pur ero taciturno, non avevo che una parola.

- Simur, c’è qualche posto dove poterti nascondere? -

- Si, sahib – rispose l’indiano dopo essersi ripreso in po’ – c’è una grotta qui vicino poco frequentata perché battuta dai guerrieri maharatti, che non hanno paura degli inglesi, che per questo li evitano. -

- Sei conosciuto fra loro? -

- Una volta ho dato rifugio ad uno dei loro capi, e mi ha detto che mi sarebbe sempre rimasto riconoscente. -

- Corri, amico, va a rifugiarti in quella grotta e aspetta. Io vendicherò i tuoi amici! -

Simur annuì con la testa, mi fece un cenno d’addio e si mise a correre. Come tutti gli indiani era agile di gambe e velocissimo e immediatamente sparì alla mia vista.

Montai in arcione, ma non sapevo dove andare, chi cercare, chi uccidere. Alla fine decisi di galoppare ulteriormente al nord, sapendo che vi era un addiaccio di inglesi. Non speravo di aggredirli, sarebbe stata una pazzia! Nonostante ciò, il mio morello mi condusse all’accampamento quando le stelle erano già sorte. Lo lasciai un po’ più indietro di dove vedevo brillare una luce. Strisciando ora fra le rocce, ora fra i grandi fusti delle palme, giunsi in prossimità del campo. In mezzo a sette od otto tende raggiava un grande fuoco, su cui rosolava un animale che assomigliava ad un cervo, forse un axis. Cinque persone stavano intorno al falò, alcuni con le camicie sbottonate, alcuni con bottiglie in mano, sicuramente piene di gin o di brandy. Una cosa che prima mi colpì e poi mi fece quasi gridare fu vedere un distinto uomo, con un gallone mancante sulla spalla. Guardai l’altro e vidi che era un tenete. Stavo mormorando qualche imprecazione a suo carico quando qualcosa mi distolse da quei rabbiosi pensieri. Vidi un uomo, un indiano seminudo legato ad un palo vicino al fuoco. Chi poteva essere? Un superstite del villaggio di Simur? Un bracconiere o contrabbandiere, chi poteva dirlo? Ebbi quasi la risolutezza di andare a liberarlo, ma fu il vapore di un attimo. Non potevo più stare li. Il cavallo aveva mandato un nitrito, forse spaventato da qualche serpente, che in quelle regioni abbondano, che se non era sfuggito a me, non doveva essere sfuggito nemmeno ai soldati. Infatti li vidi tosto alzarsi, e imbracciare i fucili. Corsi via, raggiungendo il cavallo. Montai in arcione mentre qualche palla, mal diretta per fortuna, in causa della fitta oscurità, mi rumoreggiava alle spalle.

Galoppai tutta la notte, senza sapere dove andavo. La mattina ero molto stanco, mi ero inoltrato nella giungla involontariamente ed avevo dovuto riprendere la ginnastica di tagliare le sporgenti fronde. Il mio bellissimo cavallo era morto, morso da un gigantesco cobra. Ora ero solo ma volevo lo stesso raggiungere la “Savoia”, per prendere qualche marinaio di rinforzo. Mi erano devotissimi, essendomi io più volte schierato dalla loro parte, quando avevano avuto spiacevoli episodi con altri capitani o marinai. Mi erano affezionati e non avrebbero esitato a slanciarsi contro ad un intero plotone inglese, non ignorando le conseguenze, e poi avevano più o meno le stesse mie idee, e la rabbia alimentava l’ardore dei loro cuori. Avrei dovuto riattraversare di nuovo la giungla insidiosa, senza una guida e per di più a piedi. Bestie d’ogni specie mi giravano intorno ogni giorno e ogni notte. Quando splendeva il sole erano uccelli di vari colori, stridere come carri mal’unti o gracchiare insistentemente; scimmie d’ogni sorta urlavano acutamente scagliano piccole frutta e ramoscelli o facendo brutte smorfie; mi ero anche trovato per caso nella scia aperta recentemente di un rinoceronte, e più volte avevo udito il terribile niff-niff; anche dovetti arrampicarmi con precauzione su un banian, per sfuggire ad un’emigrazione di jugli-kudja o bufali indiani; diverse specie di serpenti mi si erano rizzati davanti sibilando sinistramente o aprendo le fauci. Fortunatamente avevo spessi stivali di marina e quando due o tre provavano i loro denti su di essi dovevano desistere, macchiandoli solo di veleno. Quando prendevo posto su un albero per fare un po’ di pausa erano le rane a tenermi sveglio. Tra le epifite, ossia felci parassite, cresciute nelle biforcazioni dei rami, ve ne erano di tutti i colori: verdi e nere, gialle e nere, rosse e bianche, blu e nere, rosse e gialle e perfino quelle velenosissime tutte gialle. Quando invece scendeva la notte toccava ai grandi carnivori. A grandi distanze udivo i ruggito o meglio i miagolii possenti delle tigri o bâg, come le chiamano qui; tante volte vidi degli occhi scintillanti di verde o di giallo, nei cespugli che attorniavano il mio temporaneo accampamento, appartenenti a tigri o pantere o leopardi; qualche lupo indiano, chiamato bighamah, si era avvicinato solitario al fuoco, mostrandomi la lingua gocciolante. Bastava un sasso per allontanarli non essendo ordinariamente, quegli animali, se non in gruppo, aggressivi. Anche qualche brutto pipistrello svolazzava sopra di me, cercando di dissanguarmi, ma . . . Bah! Di sangue n’avevo in abbondanza, come ogni uomo di mare, che se lo fa da solo scolando due o tre pinte di vin di Cipro! E poi, una cavata di sangue è più utile che dannosa, in quelle regioni, in cui regnano perennemente i miasmi del cholera e di altre inimmaginabili malattie, le quali fanno una moltitudine di vittime, soprattutto fra i secchi molanghi.

In capo a tre giorni non ero ancora uscito dalla foresta. Ero pur sempre un uomo del mare, ossia un'ottima bussola, ma in quei paraggi lo strumento doveva essersi guastato. Vissi di sole frutte, solo una volta riuscii a prendere un nilgò, simile al cervo nostrano.

Il quinto giorno, sempre immerso in quel caos inestricabile di verzura, attorniato da famelici o terribili animali stavo per impazzire. Mi ero seduto su di un vecchio mattone di qualche pagoda che le orchidee, le erbe parassiti e le edere avevano prima distrutta e poi assalita, quando udii a breve distanza una detonazione seguita da un ruggito e da alcune parole che non capii. Buon marinaio, avevo un gran senso della direzione e mi diressi a corsa sfrenata dove era echeggiato lo sparo. Mi nascosi dentro un fitto macchione mettendomi a guardare. Vidi, vicino ad un monumentale albero, due uomini con larghi cappelli di Manilla, due cinesi a giudicarli dal codino foggiato a treccia che gli scendeva per la schiena. Non avevano che un misero straccio attorno ai fianchi ma avevano al braccio due buone carabine e dei parang malesi appesi al fianco. Per terra vi era una stupenda tigre reale già agonizzante.

- I contrabbandieri! - pensai.

Senz’altro mi slanciai fuori dal cespuglio, con la carabina spianata gridando:

- Fermatevi ! -

In quel momento i due cinesi stavano alzando il corpo del felino inanime. Vedendomi armarono anche loro i schioppi. Non lasciai loro il tempo di sparare. Avendo una magnifica doppietta feci fuoco due volte, mandando all’altro mondo i due. Mi avvicinai, guardando triste il corpo di quell’animale, per cui conservavo un’indicibile venerazione. Poi mi volsi verso i due bracconieri, questa volta con gli occhi vividi, in cui era balenato un lampo di disprezzo se non d’odio.

- Maledette creature! Andate al diavolo! - dissi.

Mi venne un idea, guardando i loro pesanti parang sporchi di linfa e di frammenti di foglie. Dovevano essersi aperti un passaggio, dalla laguna o da qualche villaggio, e decisi di seguire quella pista. Non dovevo essere lontano dal villaggio o dal mare e, rinfrescato da due manghi che mi avevano fatto da colazione, mi misi ad avanzare alla bersagliera. Cominciavo ad udire un scroscio inconfondibile, che indicava la presenza dell’acqua salata. Ancor più galvanizzato procedevo sempre più celere, finche raggiunsi le ultime mangrovie. Sulla spiaggia stavano altri sei cinesi, abbigliati come i primi due. Ricaricai il fucile, mi misi la sciabola fra i denti, e urlando come un ossesso, piombai sul campo come un falco sulla preda. Feci i miei due colpi di fucile, poi uno di pistola, quindi assalii all’arma bianca. Sapevo che non l’avrei durata a lungo, la mia lama si sarebbe subito spezzata all’urto delle pesanti sciabole malesi, se quei cinesi resistevano. Con un fulmineo doppio colpo, un fendente e un a fondo, colpii un cinese alla gola e l’altro nel petto. Poi mi chinai fin quasi a terra e portai al terzo un altrettanto improvviso colpo dal basso verso l’altro, squarciandogli il ventre. Ansante e colla sciabola sanguinante, cominciai ad infierire su quell’ultimo cadavere, sempre gridando. Udii poi le fronde stormire, delle urla in lingua celestiale e degli spari. Dovevo affrettarmi, non potevo resistere contro forze dieci volte superiori.

Non mi ero ancora accorto che nella rada si dondolava un piccolo ma elegante praho ad un albero, con una spingarda posizionata a prora. Con due balzi lo raggiunsi, ma mentre stavo per spiegare la vela. Cinque o sei spari rimbombarono e tosto venti uomini, parte celestiali e parte uomini biachi, comparvero sulla spiaggia gridando:

- Arrenditi ! -

Mi assicurai se la spingarda era carica, per potere sparare. Fortuna, era armata e per di più a mitraglia. Avevo acciarino ed esca in tasca e, velocizzato dall’esperienza e dall’imminente pericolo, l’accesi e detti fuoco al cannone.

Una lingua di fuoco si sprigionò dalla sua bocca, poi uno scoppio, e una nuvola di fumo. Dieci cinesi caddero, morti o moribondi. I compagni, per nulla intimoriti, fecero un fuoco simultaneo. Mi gettati lungo il ponte, non potendo evitare però un colpo di striscio alla guancia. Rapidamente ricaricai la spingarda, ma non potevo usarla con successo, ne potevo sperare di mollare l’ancora e issare la vela o mi avrebbero crivellato. I contrabbandieri, riparati parte dai cadaveri dei compagni, parte dalle dune di sabbia, erano ora invulnerabili.

Non potevo restare lì, o m'avrebbero stretto d’assedio, e forzato a morire di fame o per mano loro. Finalmente mi venne un’idea. Mi rizzai dietro il cannone con la miccia abbassata e la sciabola invece dritta in alto. Con voce possente urlai in inglese:

- Sergente Mascano, lanciate dieci uomini nella giungla e prendiamo da dietro questi farabutti! Tenente Neri, coi vostri trenta all’assalto da destra! ( sparai ) Nostromo Canotti, alla testa dei vostri cinquanta da sinistra! Mastro Panelli portate qui i quattro cannoni! Forza amici, la nostra nave sta per giungere e faremo correre questi maledetti! -

I cinesi spaventati da quegli ordini che dovevano avere ben compreso, volsero la fronte fuggendo al riparo delle boscaglie, credendo al sopraggiungere di tutti quei fantomatici soldati. Per esultare non ebbi che l’emozione e il tempo di un sorriso. Armai la vela aurica tagliai la cima dell’ancora e mi misi alla barra con la scotta in mano. Mi portai al largo, onde fuggire agli sguardi, e più alle palle, dei nemici. Legai scotta e timone e guardai sotto la tuga di paglia. Vi erano perle lucentissime e d’una grossezza incredibile, pelli, ossa, denti di tigre, casse di thé e spezie e piccoli rotoli di seta, un vero carico da contrabbandieri. Il vento l’avevo a favore e quel legno volava sulle onde. Al tramonto del seguente giorno giunsi a Jafna. Abbordai il “Savoia” e mi diressi dal capitano. Lo informai della mia triste avventura e su come intendevo agire. Mi dette il comando di quindici marinai, tra cui un mio caro amico, Boccadiferro, così chiamato per la potenza dei suoi denti.

Sempre sul veloce praho, scaricato delle due merci ma non del cannone e delle relative munizioni, salpammo verso la rada, che io mi ritenevo capace di rilevare. Radunai gli uomini in coperta, dicendo loro:

- E vero ci sono dei contrabbandieri da punire nel brano di giungla che ho percorso. Ma io non ho detto al comandante che andavamo a punire altri miserabili, un gruppo d’inglesi che ha commesso un atto che dimostra vigliaccheria, nei confronti di un mio amico indiano. Mi aiuterete? -

- Si – dissero tutti all’unisono.

Giungemmo a note fonda. Avevo guidato magnificamente ed esattamente il timoniere, poiché non avevamo commesso errori di rotta.

Sbarcammo tutti e sedici, formidabilmente armati e risoluti. Il terreno si prestava per un imboscata, ma avevamo occhi di tigre, orecchi di lince e fiuto di segugio. Camminavamo in doppia fila, puntano i fucili a destra e a sinistra, concentrati a raccogliere il minimo rumore che indicasse la presenza dei contrabbandieri, ignorando i trilli dei grilli, i muggiti dei batraci e dei caimani e gli urli di qualche scimmia insonne. Marciavamo da un quarto d’ora, quando io mi fermai prontamente dicendo a mezza voce:

- Zitti! -

- Cosa avete, capitano? – mi chiese Boccadiferro.

- Questo fruscio? -

- Si. -

- Saranno le foglie. -

- No. I contrabbandieri o dei selvaggi si stanno preparando il fuoco, sfregando due bambù, come usando fare gli orientali.

- Vado ad assicurarmene, due uomini con me!

I tre marinai si addentrarono ignari e impreparati fra i rami dei cespugli bassi, per ritornare subito dopo.

- Allora, mi sono ingannato? - chiesi.

- No, avevate ragione, signore. I contrabbandieri hanno acceso un falò. -

- Quanti? -

- Trentasei.-

- Cosa? – esclamai sbalordito io. – Così tanti sono diventati? -

- Signore? -

- Se si potesse girare attorno all’accampamento, potremmo prenderli in mezzo. -

- La vegetazione lo permette, capitano. -

- Allora prendi sette uomini e disponili uno a un metro dall’altro, attorno ai celestiali, io farò altrettanto. Il primo colpo è mio, poi faremo fuoco tutti insieme. -

Le due compagnie si divisero, scaglionandosi attorno ai contrabbandieri. Io armai la carabina e quando potei vedere il cranio nudo di uno di loro dissi:

- Questo è per la tigre! -

E sparai. Il cinese mandò un grido, poi cadde all’indietro con le braccia aperte. Altre detonazioni scoppiarono quasi contemporaneamente ed altri cinesi caddero inanimi. Gli altri erano ancora sbigottiti, a tal punto da non pensare ad afferrare le armi o a fuggire, ma procurando solo di guardarsi intorno. In capo ad un ora li avevamo abbattuti tutti.

Fu una vittoria più che altro spirituale. Tornammo al praho per procedere verso il nord, dove credevo che gli inglesi stessero procedendo per raggiungere un forte costiero. Non dovevano essere ancora giunti, da quando li avevo spiati e con quel veloce naviglio, potevamo divorare la via e il vantaggio che avevano su di noi. Se non era successo loro niente, ero sicuro di trovarli sulla costa, in quanto il castello era situato su un’altura alzata sul mare. E infatti non mi ingannavo. Un marinaio che stava a prora segnalò all’alba delle forme umane muoversi vicino alla costa. Eravamo troppo eccitati, e sbarcammo lesti come lepri. Ah! Che disgrazia! Anche gli inglesi si erano moltiplicati ed erano almeno un’intera compagnia. Davanti a tanto pericolo non mi sgomentai, e nemmeno si sgomentarono i miei uomini. Colle carabine spianate, corremmo contro ai soldati ancora seduti al suolo, occupati a mangiare i resti della cena. Con un fuoco di fila ne buttammo giù parecchi. Altrettanti colle pistole. Venimmo alle lame. Ma eravamo troppo pochi. Mentre alcuni combattevano con noi, se pur soccombendo, altri prendevano il loro posto, mentre altri ancora ci infilavano con moschettate disastrose. Dopo dieci minuti ne avevamo gettati a terra ventiquattro, e restavo vivo solo io. Un uomo mi gridò:

- Arrendetevi! -

Stavo per rispondere, forse con una sciabolata, quando otto braccia mi afferrarono legandomi e gettandomi a terra.

Mi comparve dinanzi un ufficiale, quel tenente che aveva perso il gallone e che doveva aver distrutto il villaggio di Simur.

- Siete un bianco, se non mi inganno, signore? -

- Lo vedete – risposi asciuttamente io, non esente da un prossimo attacco di rabbia.

- E con quale arditezza, osate assalire i soldati si Sua Maestà Britannica? -

- Siete in errore, tenente! Io non assalgo che briganti infami e traditori! - ruggii.

L’ufficiale impallidì, si chinò e mi diede un sonoro schiaffo. Io risposi con una risata.

- Come vi chiamate, signore? – chiesi ilare.

- Sono il tenente Jeremy Hench – rispose l’altro stizzito.

- Suvvia Jeremy, non prendertela per prima – continuai sempre più beffardo.

- Voi amate giocare, troppo, anche con a vostra stessa vita! -

Ridiventai estremamente serio, anzi iroso e terribile.

- Sempre meglio che giocare con quella degli altri! -

- Volete dire? -

- Aprite la mia borsa e capirete! -

L’ufficiale si avvicinò a me, aperse la mia bisaccia e ne trasse il suo distintivo.

- Era vicino ad un villaggio, che ora non sussiste, o meglio ne restano poche macerie, ne sapete qualcosa di ciò, signor tenente? -

- Certo – rispose tranquillo Hench – L’ho bruciato io, perché gli abitanti si rifiutavano di pagare il tributo in merci che spettava loro. L’ho fatto tante altre volte.

Aveva pronunciato quest’ultima frase quasi con piacere e mi aveva messo indosso un grande odio per lui.

- Ve ne fate un vanto, un fregio, signore? -

- Non dovrei forse? E poi perché ve ne date pensiero, non siete un bianco anche voi? -

Io feci una smorfia di disprezzo, sputai sugli stivali del tenente e dissi con amarezza:

- Che ripugnanza che mi fate voi, signore! Se posso, anzi devo, chiamarvi così. Si io sono un bianco al pari di voi, ma non siamo uguali. I miei ideali di giustizia vanno oltre ai vostri, la mia è una giustizia incontestabile che impongo solo a me stesso e ai miei connazionali. Non la vado a portare per il modo, definendola la migliore e l’impeccabile! -

- Basta, così! – esclamò l’ufficiale – legatelo con gli altri, più tardi li fucileremo.

Due uomini mi condussero vicino alle tende, accanto a cui s’ergevano tre pali. Uno era occupato dall’indiano che avevo visto l’ultima volta. All’altro era legato Simur, che pareva privo di sensi. Il terzo era libero e capii che quello era il mio posto. Ero vicino all’indiano che non conoscevo.

Quando i due soldati se ne andarono chiesi all’indigeno:

- Chi sei? -

- Mi chiamo Bangi. -

- Sei l’amico di Simur, quello del villaggio arso? – chiesi con veemenza.

- Si, sono io, sahib. -

- Che cosa hanno fatto al pescatore, perché non apre gli occhi? -

- Ogni giorno, da quando ci hanno catturati ci danno cento frustate e Simur, che non è un guerriero, non le ha rette. -

- Tu lo sei? -

- Cosa, sahib? -

- Un guerriero? -

- Sono il guerriero più famoso del mio villaggio, che ora non esiste più! – singhiozzò superbo l’indiano.

 - Ecco, sapresti dirmi il motivo per cui gli inglesi hanno distrutto le vostre capanne? -

- Ascolta, sahib. La mia gente era molto povera e riuscivamo a produrre sessanta sacchi di riso all’anno, una vera miseria per tanti che eravamo. In più i soldati, che venivano a raccogliere la loro parte ce ne lasciavano solo venti. Il resto ce lo procuravamo nella foresta, a nostro rischio quotidiano. Eravamo inoltre possessori di una piccola ma ricca miniera di smeraldi, che di tanto in tanto scambiavamo, con i villaggi vicini, con della selvaggina, o della verdura. La causa della nostra povertà è che avevamo dovuto dimezzare i campi, per fare posto alla grande città inglese che nasce ad est. Ci provammo a nascondere altri venti sacchi di riso, dicendo alla compagnia che ti ha ucciso i marinai, che per quell’anno il raccolto era andato male. Gli inglesi misero a soqquadro il villaggio e quando trovarono i sacchi nascosti bruciarono le capanne, con dentro gli abitanti. Era orribile! Come ridevano i soldati nell’uniforme rossa! E io piangevo, mentre combattevo, finché non venni fatto prigioniero.

- E ti frustano chiedendoti della miniera, non è così? -

- Si, sahib. -

Allora i ventisei soldati,con i fucili sulla spalla, e il tenente a cavallo di uno stallone bianco, ci vennero incontro.

- Signore – mi disse – voi e questi uomini dovete morire. -

- Non ho mai avuto paura di quella signora. -

- Bene, meglio così. -

- E la miniera ? – chiese Bangi.

- Saprò trovarla egualmente. Compagnia! . . . Su due file! . . . Prima fila in ginocchio! -

I soldati obbedivano con matematica precisione e con ineffabile cadenza.

- Caricate! . . . Puntate! . . . -

Stava per comandare il fuoco, quando dovette girarsi. Anzi, si girarono tutti. Cento, forse duecento cavalieri s’avanzavano con un gran rombo e le scimitarre sguainate. Tosto una mischia impetuosa e sanguinosissima s’impegnò tra soldati e cavalieri, i quali erano momentaneamente nostri alleati.

- I maharatti! – gridavano alcuni.

- Alle armi! – gli altri.

- Fuggite! – altri ancora.

Un uomo, che indossava ricche vesti, passò di corsa davanti a noi, liberandoci delle corde che ci stringevano.

Afferrai un’arma, imitato dai due indiani, poiché anche Simur s’era ripreso, e cominciai a combattere al fianco di quei prodi guerrieri i quali sono i partigiani dell’India. Avevo già sfogata la mia ira su un paio di soldati, quando mi ricordai del tenente. Lo cercai con gli sguardi, e lo trovai. Si sbarazzò di un cavaliere poi partì di gran galoppo verso l’est. Io, buon corridore, gettai la scimitarra lorda di sangue, strappai di mano ad un maharatto un kriss malese serpeggiante e corsi sulla scia del cavallo, sicuro di raggiungerlo. Avevo fatta buona considerazione dei miei polmoni. Ero ormai vicino al cavallo bianco. Mi gettai sul sergente disarcionandolo, mandando il corsiero a fracassarsi una zampa. Rapido come il pensiero estrassi il gallone di stoffa del tenente e gli piombai sopra immobilizzandolo. Glielo misi sul petto, poi tuonai possente:

- Il vostro grado, signore. Vi rendo giustizia, . . . la giustizia che volevate! – E lo trafissi insieme col gallone.

IL tenente spirò poco dopo. Tornai al campo dove i maharatti, il cui capo era l’amico di Simur, avevano sgominato i soldati. Mi feci accompagnare alla mia nave, dopo aver abbracciato il mio pescatore e passati i diciotto mesi, tornai qui in Italia.

 

Capite, miei piccoli, come vanno le cose? Come funziona il mondo, fuori delle coste italiane, fuori del vostro paese? E una realtà diversa che saprete sentenziare quando sarete più grandi. Ah! Bravo Filippo! E proprio il pugnale che tengo sopra il letto, miei piccoli nipoti.

 

FINE