La notte dietro la curva del fiume
Roberto Colantonio

 

“Che cosa succede?” chiese il generale, alzandosi.

“Aspettate che abbiamo superato quella curva e lo sapremo, padrone” disse Feng che si era accostato a loro, dopo aver ceduto il timone a un battelliere [1].

Il capitano Salgari rimase seduto, con la mano che muoveva il pennino su un fogliaccio buttato lì affianco, solo per giocarci e infatti avrebbe dovuto ritingerlo nella boccetta dell’inchiostro.

Uno dei problemi con questa nuova casa, in via Nuovi dei Bottari, un palazzone di recente fabbricazione, era la luce.

Ce n’era poca.

 

La finestra dava su un cortiletto cieco e se non teneva le tendine accostate - tendine terribilmente sudice, ma Aida non ce la faceva più a stare dietro le faccende di casa - di certo quell’orribile gente che viveva nell’appartamento di fronte avrebbe avuto la curiosità di sbirciare nella sua stanza.

Lui che quando scriveva non voleva avere nessuno vicino, tanto che spesso e volentieri chiudeva a chiave la porta, per via dei figli piccoli che entravano precipitosamente senza bussare.

Quella porta chiusa era la disperazione di Aida.

 

È come se pensasse che potessi commettere qualche pazzia su me stesso, e rideva delle sue preoccupazioni.

Anche quella mattinata, appena svegli, gli aveva fatto una scenata terribile, a proposito di quella abitudine.

Com’è che aveva appena scritto?

Rovistò brevemente tra i fogli che aveva scritto tra la giornata di oggi e quella di ieri.

Ah si, ecco qui: Mescolò per alcuni minuti finché quel pezzetto di pasta fu sciolto, alzò la tazza e la vuotò d’un fiato. “Addio, mia dolce Len-Pra. Possa la mia morte placare la collera del re e salvarti dalla schiavitù.[2]

 

Il capitano Salgari ridacchiò, ora aveva capito cos’era successo.

Aida dorme poco e quella notte, quando lui stava già dormendo, doveva aver letto quelle pagine.

Si accese una sigaretta sottile e, come masticandola, afferrò un altro foglio e cominciò a scriverci, dopo aver ricaricato il pennino.

“Parlate adagio, non stancatevi. Siete ancora un po’ debole.”

“Non provo che un po’ di sonnolenza.”

“Non ritenterete la prova, spero.”

“No, perché ora ho un desiderio terribile di vendicarmi dei nemici che hanno giurato la mia perdita.[3]

 

Rilesse, posò il foglio sullo scrittoio, poi aggiunse “ ve lo prometto”

Ecco, Aida, va bene così? Sei più tranquilla?

E aggiunse lo scritto al mucchietto di fogli già pronti.

Lavorò un’altra mezz’oretta, distrattamente, schizzando schemetti; una specie di geometria del romanzo che non aveva ancora tutto in mente, ma tanto la storia sarebbe venuta fuori da sola, lo sapeva. Succedeva sempre così.

 

Armato del suo panciotto meno liso, con i baffi a manubrio più gagliardi del solito e i pochi capelli nascosti sotto il berretto da marinaio, il capitano Salgari si recò all’appuntamento con Della Valle[4] al famoso Caffè Chantant di Piazza Vittoria.
Alberto lo accolse cordialmente, e anche Emilio si mostrò contento di rincontrare l’amico, ma la sua schiettezza era molto lontana dalla cortesia dell’altro.

Alberto era di origine nobili e avrebbe voluto fare il pittore, sebbene poi avesse dovuto ripiegare sul mestiere di illustratore dove, comunque, eccelleva grazie alla sua sensibilità e allo spiccato senso del colore e delle proporzioni.

Era già da molti anni in rotta con la sua famiglia, in particolare con suo fratello il primogenito che reggeva le redini della casata.

Del resto, come amava raccontare ai suoi conoscenti più intimi, per la sua famiglia non c’era molto differenza tra pittura e illustrazione.

Non più di quanto, ad uno che non fosse agricoltore o massaia che va a fare la spesa, appaiono molto diverse una rapa bianca da una barbabietola, o rapa rossa.

La nobiltà italiana sembra essersi fatta un preciso dovere morale il non interessarsi di niente, scherzava.

 

Il capitano chiese il caffè amaro, come suo solito, in quanto nei suoi vari studi si era imbattuto in una relazione medica di un dottore ungherese, peraltro mai pubblicata al di fuori degli ambienti universitari, dove si sosteneva che lo zucchero, come il sale e le altre polveri, erano impossibili a digerire, in quanto già ridotte ai loro minimi termini e finivano quindi per accumularsi nelle giunture causando artrite e altri mille mali.

E, sempre come suo solito, fece una smorfia dopo averlo ingollato tutto un fiato, come fosse un liquore, oppure una medicina.

Infatti ancora non si era abituato al sapore.

 

Il Della Valle tirò fuori certi suoi bozzetti, per le nuove edizioni che l’editore Donoath aveva intenzione di ristampare a breve, e Salgari li osservò a lungo, in silenzio, con un’espressione di evidente compiacimento.

Ma il disegnatore non si fece eccessive illusioni: aveva notato, nel corso della sua carriera, come gli scrittori vadano in brodo di giuggiole nel vedere il proprio nome stampato a caratteri cubitali sulla copertina, l’unica cosa che in fondo gli interessi.

Intanto Emilio aveva separato dal contesto due tavole, una per “Le due tigri”, e l’altra per il “Corsaro Nero”.

 

- Codesto mio Corsaro Nero è del  migliore sangue ligure, e tu me lo figuri come un Don Rodrigo qualsiasi.

Eppoi pare in soprappeso. No, caro Alberto, così non va.

Il Della Valle promise che avrebbe apportato i ritocchi e le modifiche indicate, e nello stesso momento si ripromise di dimenticarsene.

La tavola era già stata approvata dal Donath, e questo rendeva i commenti del capitano superflui.

 

Invece su “Le due tigri” Salgari non aveva obiezioni, ammise che gli piaceva.

Subito l’argomento della conversazione, accantonate le illustrazioni, cadde sulle conoscenze che avevano in comune a Genova.

Non molte, a dire il vero, perché lo scrittore si era convertito ultimamente ad una vita familiare più ristretta, anche dopo aver chiuso la sua storia con la sig.ra F., con la quale continuava anche adesso a scriversi, anche se su temi strettamente letterari.

Ne aveva sempre ammirato l’intelligenza, dote che trovava sempre difficile imprimere con una certa credibilità nelle sue tante eroine, tutte belle e sottili giunchi, che si accontentavano dell’amore come fosse la loro missione divina, il loro posto nella società secondo l’ordine naturale delle cose.

A sua discolpa va detto che il capitano di donne non ne incontrava tutti i giorni; bastava guardarsi intorno, in quel caffè, per non scorgere nemmeno una testolina incappellata.

Una specie di tacito accordo tra la comunità maschile e quella femminile della città, che si dividevano il territorio come due principi reali con uguali titoli il regno ereditato.

 

La conversazione del Salgari aveva la brutta tendenza a peggiorare col passare dei minuti.

Ciò era dovuto al fatto che lo brillante scrittore, dopo un po’, parlava come se si rivolgesse a dei bambini.

Per via della gran massa di nozioni amene che incamerava direttamente dalle enciclopedie, senza filtro.

Il Della Valle, che si tratteneva unicamente per far correre le lancette dell’orologio verso il tardo pomeriggio, quando si sarebbe incontrato, in privata udienza, con un’affascinante signora torinese - ed era in effetti questa la ragione principale della sua trasferta piemontese, guardava con una noia sempre più crescente quell’ometto che anche seduto ai tavolini del caffè si ostinava a tenere in testa un berretto da marinaio.

Eppure aveva un’energia eccezionale.

Della Valle ripensava, in proposito, a quello che gli aveva a Genova Donath: “quel Salgari, lì, se fosse nato ricco non avrebbe scritto un rigo! Che credi, Alberto, che se non avesse avuto i vestiti da comprare alla moglie, la pigione da pagare, i bimbi da mandare a scuola, avrebbe scritto per me 10 romanzi in quattro anni? No, no, li conosco bene i miei polli, io che ne ho visti tanti così!”

 

Con lo scuro, i due finalmente si congedarono, prendendo direzioni diverse.

Le strade che riportava a casa il capitano Salgari erano certo meno belle e curate di quelle per le quali il Della Valle stava raggiungendo la sua amante.

Via Nuovi dei Bottari era in periferia, poco lungi dai casermoni operai e dagli stabilimenti industriali della famiglia Geroni, quelli dei “cuscinetti a sfera Geroni”; esportavano anche in Belgio e Germania.

Camminando coll’aria assorta, il capitano quasi finì per calpestare dei ragazzini intenti a dei loro giochi misteriosi, accasciati sul ciglio del marciapiede.

Bastò la sua sola irruzione per mettere in fuga quelle birbe che evidentemente avevano la coscienza sporca, o si trattava semplicemente della naturale diffidenza dei piccoli verso gli adulti.

Lì per terra, in una bacinella con un po’ d’acqua nuotava disperatamente un ramarro che i monelli avevano tentato di affogare.

 

La coda, un piccolo e sottile filo verde, si muoveva per conto suo vicino alla bacinella, legata allo spago che ci avevano legato per divertirsi.

Salgari restò in piedi, a guardare quello strano spettacolo.

Come fulminato da una delle sue idee.

Poi disse a mezza voce, dalle reminescenze delle sue letture di biblioteca: “Le code dei gaviali, formidabili rettili parenti dei coccodrilli, sono considerate una ghiottoneria su tutti i mercati dei Siam. Tanto che quei popoli arrivano addirittura ad allevarli in giganteschi recinti in riva al fiume.”

Con un calcio rovesciò la bacinella, che si girò di lato e corse per un metro come una ruota.

Il capitano Salgari era già dieci passi più avanti, nella direzione di casa e di una certa curva del fiume Menam, il più grande e lungo della Thailandia.

Fischiettava allegro un motivetto allora in voga.

FINE



[1] La città del Re Lebbroso, E. Salgari, prima edizione 1904, Genova, casa ed. Donath

[2] idem

[3] idem

[4] Alberto Della Valle, illustratore