La notte dietro la curva del fiume |
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“Che cosa succede?” chiese
il generale, alzandosi.
“Aspettate che abbiamo
superato quella curva e lo sapremo, padrone” disse Feng che si era accostato a
loro, dopo aver ceduto il timone a un battelliere [1].
Il capitano Salgari rimase
seduto, con la mano che muoveva il pennino su un fogliaccio buttato lì
affianco, solo per giocarci e infatti avrebbe dovuto ritingerlo nella boccetta
dell’inchiostro.
Uno dei problemi con questa
nuova casa, in via Nuovi dei Bottari, un palazzone di recente fabbricazione,
era la luce.
Ce n’era poca.
La finestra dava su un
cortiletto cieco e se non teneva le tendine accostate - tendine terribilmente
sudice, ma Aida non ce la faceva più a stare dietro le faccende di casa - di
certo quell’orribile gente che viveva nell’appartamento di fronte avrebbe avuto
la curiosità di sbirciare nella sua stanza.
Lui che quando scriveva non
voleva avere nessuno vicino, tanto che spesso e volentieri chiudeva a chiave la
porta, per via dei figli piccoli che entravano precipitosamente senza bussare.
Quella porta chiusa era la
disperazione di Aida.
È come se pensasse che
potessi commettere qualche pazzia su me stesso, e rideva delle sue
preoccupazioni.
Anche quella mattinata,
appena svegli, gli aveva fatto una scenata terribile, a proposito di quella
abitudine.
Com’è che aveva appena
scritto?
Rovistò brevemente tra i fogli
che aveva scritto tra la giornata di oggi e quella di ieri.
Ah si, ecco qui: Mescolò
per alcuni minuti finché quel pezzetto di pasta fu sciolto, alzò la tazza e la
vuotò d’un fiato. “Addio, mia dolce Len-Pra. Possa la mia morte placare la
collera del re e salvarti dalla schiavitù.[2]”
Il capitano Salgari
ridacchiò, ora aveva capito cos’era successo.
Aida dorme poco e quella
notte, quando lui stava già dormendo, doveva aver letto quelle pagine.
Si accese una sigaretta
sottile e, come masticandola, afferrò un altro foglio e cominciò a scriverci,
dopo aver ricaricato il pennino.
“Parlate adagio, non
stancatevi. Siete ancora un po’ debole.”
“Non provo che un po’ di
sonnolenza.”
“Non ritenterete la prova,
spero.”
“No, perché ora ho un
desiderio terribile di vendicarmi dei nemici che hanno giurato la mia perdita.[3]”
Rilesse, posò il foglio
sullo scrittoio, poi aggiunse “ ve lo prometto”
Ecco, Aida, va bene così?
Sei più tranquilla?
E aggiunse lo scritto al
mucchietto di fogli già pronti.
Lavorò un’altra mezz’oretta,
distrattamente, schizzando schemetti; una specie di geometria del romanzo che
non aveva ancora tutto in mente, ma tanto la storia sarebbe venuta fuori da
sola, lo sapeva. Succedeva sempre così.
Armato del suo panciotto
meno liso, con i baffi a manubrio più gagliardi del solito e i pochi capelli
nascosti sotto il berretto da marinaio, il capitano Salgari si recò
all’appuntamento con Della Valle[4]
al famoso Caffè Chantant di Piazza Vittoria.
Alberto lo accolse cordialmente, e anche Emilio si mostrò contento di
rincontrare l’amico, ma la sua schiettezza era molto lontana dalla cortesia
dell’altro.
Alberto era di origine
nobili e avrebbe voluto fare il pittore, sebbene poi avesse dovuto ripiegare
sul mestiere di illustratore dove, comunque, eccelleva grazie alla sua
sensibilità e allo spiccato senso del colore e delle proporzioni.
Era già da molti anni in
rotta con la sua famiglia, in particolare con suo fratello il primogenito che
reggeva le redini della casata.
Del resto, come amava
raccontare ai suoi conoscenti più intimi, per la sua famiglia non c’era molto
differenza tra pittura e illustrazione.
Non più di quanto, ad uno
che non fosse agricoltore o massaia che va a fare la spesa, appaiono molto
diverse una rapa bianca da una barbabietola, o rapa rossa.
La nobiltà italiana sembra
essersi fatta un preciso dovere morale il non interessarsi di niente,
scherzava.
Il capitano chiese il caffè
amaro, come suo solito, in quanto nei suoi vari studi si era imbattuto in una
relazione medica di un dottore ungherese, peraltro mai pubblicata al di fuori
degli ambienti universitari, dove si sosteneva che lo zucchero, come il sale e
le altre polveri, erano impossibili a digerire, in quanto già ridotte ai loro
minimi termini e finivano quindi per accumularsi nelle giunture causando
artrite e altri mille mali.
E, sempre come suo solito,
fece una smorfia dopo averlo ingollato tutto un fiato, come fosse un liquore,
oppure una medicina.
Infatti ancora non si era
abituato al sapore.
Il Della Valle tirò fuori
certi suoi bozzetti, per le nuove edizioni che l’editore Donoath aveva
intenzione di ristampare a breve, e Salgari li osservò a lungo, in silenzio,
con un’espressione di evidente compiacimento.
Ma il disegnatore non si
fece eccessive illusioni: aveva notato, nel corso della sua carriera, come gli
scrittori vadano in brodo di giuggiole nel vedere il proprio nome stampato a
caratteri cubitali sulla copertina, l’unica cosa che in fondo gli interessi.
Intanto Emilio aveva
separato dal contesto due tavole, una per “Le due tigri”, e l’altra per il
“Corsaro Nero”.
- Codesto mio Corsaro Nero è
del migliore sangue ligure, e tu me lo
figuri come un Don Rodrigo qualsiasi.
Eppoi pare in soprappeso.
No, caro Alberto, così non va.
Il Della Valle promise che
avrebbe apportato i ritocchi e le modifiche indicate, e nello stesso momento si
ripromise di dimenticarsene.
La tavola era già stata
approvata dal Donath, e questo rendeva i commenti del capitano superflui.
Invece su “Le due tigri”
Salgari non aveva obiezioni, ammise che gli piaceva.
Subito l’argomento della
conversazione, accantonate le illustrazioni, cadde sulle conoscenze che
avevano in comune a Genova.
Non molte, a dire il vero,
perché lo scrittore si era convertito ultimamente ad una vita familiare più
ristretta, anche dopo aver chiuso la sua storia con la sig.ra F., con la quale
continuava anche adesso a scriversi, anche se su temi strettamente letterari.
Ne aveva sempre ammirato
l’intelligenza, dote che trovava sempre difficile imprimere con una certa
credibilità nelle sue tante eroine, tutte belle e sottili giunchi, che si
accontentavano dell’amore come fosse la loro missione divina, il loro posto
nella società secondo l’ordine naturale delle cose.
A sua discolpa va detto che
il capitano di donne non ne incontrava tutti i giorni; bastava guardarsi
intorno, in quel caffè, per non scorgere nemmeno una testolina incappellata.
Una specie di tacito accordo
tra la comunità maschile e quella femminile della città, che si dividevano il
territorio come due principi reali con uguali titoli il regno ereditato.
La conversazione del Salgari
aveva la brutta tendenza a peggiorare col passare dei minuti.
Ciò era dovuto al fatto che
lo brillante scrittore, dopo un po’, parlava come se si rivolgesse a dei
bambini.
Per via della gran massa di nozioni amene che incamerava
direttamente dalle enciclopedie, senza filtro.
Il Della Valle, che si
tratteneva unicamente per far correre le lancette dell’orologio verso il tardo
pomeriggio, quando si sarebbe incontrato, in privata udienza, con un’affascinante
signora torinese - ed era in effetti questa la ragione principale della sua
trasferta piemontese, guardava con una noia sempre più crescente quell’ometto
che anche seduto ai tavolini del caffè si ostinava a tenere in testa un
berretto da marinaio.
Eppure aveva un’energia
eccezionale.
Della Valle ripensava, in
proposito, a quello che gli aveva a Genova Donath: “quel Salgari, lì, se fosse
nato ricco non avrebbe scritto un rigo! Che credi, Alberto, che se non avesse
avuto i vestiti da comprare alla moglie, la pigione da pagare, i bimbi da
mandare a scuola, avrebbe scritto per me 10 romanzi in quattro anni? No, no, li
conosco bene i miei polli, io che ne ho visti tanti così!”
Con lo scuro, i due
finalmente si congedarono, prendendo direzioni diverse.
Le strade che riportava a
casa il capitano Salgari erano certo meno belle e curate di quelle per le quali
il Della Valle stava raggiungendo la sua amante.
Via Nuovi dei Bottari era in
periferia, poco lungi dai casermoni operai e dagli stabilimenti industriali
della famiglia Geroni, quelli dei “cuscinetti a sfera Geroni”; esportavano
anche in Belgio e Germania.
Camminando coll’aria
assorta, il capitano quasi finì per calpestare dei ragazzini intenti a dei loro
giochi misteriosi, accasciati sul ciglio del marciapiede.
Bastò la sua sola irruzione
per mettere in fuga quelle birbe che evidentemente avevano la coscienza sporca,
o si trattava semplicemente della naturale diffidenza dei piccoli verso gli
adulti.
Lì per terra, in una
bacinella con un po’ d’acqua nuotava disperatamente un ramarro che i monelli
avevano tentato di affogare.
La coda, un piccolo e
sottile filo verde, si muoveva per conto suo vicino alla bacinella, legata allo
spago che ci avevano legato per divertirsi.
Salgari restò in piedi, a
guardare quello strano spettacolo.
Come fulminato da una delle
sue idee.
Poi disse a mezza voce,
dalle reminescenze delle sue letture di biblioteca: “Le code dei gaviali,
formidabili rettili parenti dei coccodrilli, sono considerate una ghiottoneria
su tutti i mercati dei Siam. Tanto che quei popoli arrivano addirittura ad
allevarli in giganteschi recinti in riva al fiume.”
Con un calcio rovesciò la
bacinella, che si girò di lato e corse per un metro come una ruota.
Il capitano Salgari era già
dieci passi più avanti, nella direzione di casa e di una certa curva del fiume
Menam, il più grande e lungo della Thailandia.
Fischiettava allegro un
motivetto allora in voga.
FINE