Salgari bianco

Scorribanda cromatica attraverso i romanzi salgariani.




Veramente inesauribile è la tavolozza di Salgari!
Le sue descrizioni della natura, dei luoghi, dei personaggi coprono tutta la possibile gamma cromatica. Ma c’è un colore che si può dire il nostro romanziere prediligesse? Sappiamo che tra i suoi corsari “a colori” spicca il Corsaro Nero, la sua creazione più famosa insieme a Sandokan: parrebbe dunque ovvio propendere per questo che dagli scienziati è definito, insieme al bianco, un non-colore. Eppure per contrasto, fra le nere trine del suo funereo costume, il volto del conte di Ventimiglia appare «pallido, quasi marmoreo», tendente al bianco insomma. E proprio sul bianco nell’opera di Salgari intendo ora soffermarmi.
Si è detto e scritto tanto sul significato simbolico di questo colore a proposito di tre capisaldi dell’Ottocento letterario americano, due romanzi e un poema narrativo di ambientazione marina, rispettivamente di Herman Melville, Edgar Allan Poe e Samuel Taylor Coleridge. Li conosciamo: sono Moby Dick, Il resoconto di Arthur Gordon Pym da Nantucket e La ballata del Vecchio Marinaio. Anche se nelle strofe di quest’ultima sono molti i colori citati, è il bianco a definirne l’atmosfera magica e lirica: incontriamo innanzitutto il candido albatro, creatura quasi ultraterrena che, uccisa dal gesto insensato del Vecchio Marinaio, è causa delle disavventure della sua nave; seguono la pelle bianca come lebbra della misteriosa donna che risponde al nome di Life-in-Death, le nivee sagome dei serpenti marini, il biancore della baia dove approda la nave maledetta. Il bianco, insomma, è inteso da Coleridge come espressione di vuoto, di morte, laddove nell’immaginario collettivo d’Occidente questo colore è associato piuttosto a immagini di luce, di purezza e di vita, al contrario del nero.
L’apice tragico e lirico riguardo alla bianchezza è tuttavia rappresentato da Moby Dick. Nel capolavoro melvilliano essa non è solo prerogativa della balena inseguita dal capitano Ahab, ma occhieggia un po’ dappertutto: nelle raffiche bianche del vento, nel marchio livido e biancastro che attraversa il corpo di Ahab, nei frangenti della Via Lattea, nelle ali degli uccelli marini. E questa presenza ricorrente contribuisce a definire il tema fondamentale del romanzo: il limite della conoscenza umana e il senso di mistero del mondo.
Anche nel Resoconto di Poe tema dominante è il candore. Dopo innumerevoli peripezie Pym e il suo compagno Dirk Peters sono raccolti da una goletta inglese la cui rotta è finalizzata a svelare il mistero del Polo antartico. Durante il viaggio il veliero approda nell’isola di Tsalal i cui indigeni di pelle scura, non avendo mai visto degli uomini bianchi, rimangono terrorizzati da quel colore che per essi rappresenta l’ignoto. Mentre tutto l’equipaggio viene sterminato, Pym e Peters riescono a fuggire su una canoa insieme ad un ostaggio. Durante il loro peregrinare le fitte piogge bianche, il mare lattiginoso, gli stormi di uccelli lividi costituiscono altrettanti motivi di terrore per il selvaggio a bordo, che arriva a morirne. Vicini a sciogliere il mistero del Polo Sud, i due marinai superstiti finiscono nelle spire di un enorme gorgo dal quale si leva una gigantesca figura antropomorfa il cui colore è «il bianco perfetto della neve». A questo punto, davanti al niveo vuoto polare, le memorie di Pym s’interrompono.
Di certo queste tre opere erano note al nostro Salgari. Ma ha avvertito lo scrittore veronese tutto lo spessore del loro significato simbolico, il fascino e insieme l’orrore suscitati dal bianco? In qualche misura deve esserne rimasto fortemente suggestionato, come appare a tratti nella sua opera letteraria.
La bianchezza primeggia infatti nei sette romanzi polari, come pure in altri titoli e racconti dedicati alle esplorazioni nelle zone più fredde del pianeta, dove essa è sinonimo di vastità desolate ed ostili all’uomo a causa delle nevi e dei ghiacci, che però si colorano delle più smaglianti tinte quando il sole li colpisce. Salgari ne è palesemente affascinato, come appare da questa descrizione tratta dal romanzo Al Polo Australe in velocipede:

«[Quei ghiacci] avevano proporzioni mostruose: taluni avevano un’estensione di mezzo miglio ed un’altezza di duecento metri. Figuratevi quali masse, quando si pensi che, se hanno un’altezza di cento metri, devono averne trecento di sotto!... Alcuni di quei giganti dovevano dunque avere uno spessore di ottocento metri! I raggi solari, riflettendosi su quelle superfici bianche, venate di un azzurro languido o di un verde pallido, sprigionavano qua e là, attorno alle punte o negli angoli, delle tinte superbe. Alcuni di quegli ice-bergs (è il nome che si dà alle montagne di ghiaccio galleggianti) sembravano enormi diamanti incrostati di zaffiri o di smeraldi, altri sembrava che celassero nel loro interno un vero fuoco, poiché le loro estremità riflettevano delle tinte rosse, ed altri ancora, che non potevano ricevere la luce solare, parevano zaffiri, ma sposati ad una sostanza ignota e meravigliosa, la quale rifletteva tutti i colori dell’arcobaleno».

Tuttavia dietro questo spettacolo meraviglioso la morte è sempre in agguato:

«Su quella vasta pianura gelata regnava un silenzio di morte, né si scorgeva alcun essere vivente. Perfino gli uccelli, così numerosi sulle cose, mancavano, e non se ne vedeva uno volare su quella superficie immacolata, mai calpestata da piede umano, fin dal tempo della sua formazione. – Che deserto di ghiaccio! – esclamò Bisby, rabbrividendo. – Mette paura solamente a vederlo».

Nel medesimo romanzo Salgari ci informa anche sul fenomeno dell’ice-blinck:

«Questo ice-blink indica la vicinanza degli ice-fields, o immensi campi di ghiaccio. È una luce bianca, prodotta dal rifrangersi dei raggi solari sulla superficie dei ghiacci e si riflette in cielo, specialmente quando questo è coperto di nubi. Talvolta questa luce è così vivida che la si distingue anche in mezzo a fitti nebbioni».

Nebbioni, ovviamente, tendenti anch’essi al bianco-grigiastro. Insomma la bianchezza accompagna sempre, fra nevi e ghiacci, le vicende di tanti eroi salgariani che lottano per la sopravvivenza o non badano a sacrifici pur di raggiungere una meta, di svelare un mistero.
Altrove il bianco ritorna come anomalia, come diversità. Mi riferisco ad un romanzo del 1902 che anche nel titolo cita questo colore: La giraffa bianca. In questo racconto di ambientazione africana due audaci tedeschi – il dottor Skomberg e William Beker – sfidano ogni sorta di pericoli per impadronirsi di questo raro esemplare albino («una splendida giraffa dal mantello bianco come il latte») onde riportarne come trofeo la pelle al museo zoologico di Dresda.
Sempre a proposito di quadrupedi, La città del re lebbroso (1904) ci trasporta in Siam (l’attuale Thailandia), dove la morte di un elefante bianco, considerato una reincarnazione di Buddha, dà il via alle avventure dei protagonisti, lanciati alla ricerca di un favoloso uncino per elefanti: esso, oltre a scongiurare le fatali conseguenze per il Paese dovute alla perdita del sacro pachiderma, servirà a riabilitare il ministro suo custode, caduto in disgrazia presso il re. Anche qui incontriamo un raro esemplare albino, accolto con ogni onore alla corte di Bangkok e adorno di tutti gli orpelli conferitigli dalla sua dignità:

«Era un colossale elefante, alto quasi quattro metri, con zanne lunghissime e la pelle quasi biancastra, con macchie un po’ grigiastre e assai più rugosa di quella degli altri pachidermi, anzi quasi squamosa».

Il colore da cui dipende la vita degli eroi di turno è in fondo lo stesso che maculava la pelle dell’antico re di Angkor affetto dalla lebbra, malattia le cui lesioni cutanee si presentano appunto come chiazze biancastre.
Ma il bianco esprime anche inimicizia, lotta senza quartiere, crudeltà efferate. Come testimonia la trilogia di romanzi dedicati al Far-West. Non a caso i bianchi sono chiamati visi pallidi e considerati antagonisti dai pellerossa che si vedono espropriati dei loro territori di caccia e quindi votati all’estinzione. E dire che quel colore fa parte integrante del mondo dei guerrieri rossi. Bianco, infatti, è il cavallo delle leggende indiane addomesticato dal colonnello Devandel, che per questo ha avuto salva la vita e meritato di prendere in moglie Yalla, la figlia del capo dei Sioux («un bellissimo animale di una bianchezza immacolata, il cui pelame riluceva come se fosse di raso»), e bianco è pure il cavallo di lei, divenuta sakem dei Sioux, che per vendicarsi di essere stata abbandonata dal colonnello attenta alla vita dei figli avuti da lui in seconde nozze («Yalla avanzava, guidando i suoi guerrieri e montando un meraviglioso cavallo tutto bianco, simile a quello che il colonnello aveva catturato nella prateria»). Non solo: bianchi sono la sua camicia di seta e i mocassini di pelle, e bianco è il mantellone di pelle di montone in cui la fiera pellerossa si avvolgerà come un sudario dopo essere stata colpita a morte dall’indian-agent John Maxim.
Quindici anni dopo Minnehaha - la Scotennatrice, degna figlia di Yalla e del suo secondo marito, il capo dei Corvi Nube Rossa – farà di tutto per vendicarla. Usa a cavalcare anche lei uno splendido cavallo bianco, fino all’ultimo la terribile guerriera indosserà come la madre un magnifico mantellone di ugual colore adorno di ricami e frange, e destinato ad avvolgere anche lei ferita a morte nell’ultimo scontro a fuoco con i visi pallidi:

La Scotennatrice, crivellata di palle, lasciò cadere il suo scudo ed anche l’ascia, mandò un urlo selvaggio di belva ferita e precipitò a terra, macchiando di rosso la neve ed il suo bianco mantellone. […] in un supremo sforzo, si era avvolta nel mantello ereditato da sua madre e pareva che dormisse.

Ancora torna l’immagine di un candido sudario. E come dimenticare, a questo punto, il bianco lenzuolo col quale – nel romanzo del 1900 Gli scorridori del mare – i marinai devoti al defunto capitano Solilach inscenano l’apparizione del suo spettro per spaventare il superstizioso equipaggio del brigantino che fu suo ed ora è in mano ad una banda di pirati?
Con questa immagine funerea, ma allo stesso tempo beffarda – il ché corrisponde ad un altro volto di Salgari, quello di impenitente bohèmien animatore di burle – termina questa scorribanda cromatica attraverso alcune delle sue opere.

Oreste Paliotti

Appunti di viaggio

Questo Tigrotto ha scritto anche i seguenti articoli:

  • La Talpa

  • Indice!

    Questo sito è ideato e gestito da La Perla di Labuan