I Drammi della schiavitù




Chi ritiene ancora che Salgari sia un autore per ragazzi forse non ha mai letto I Drammi della Schiavitù.
Le tematiche del libro, prima fra tutte quella dello schiavismo, che è una delle pagine nere e purtroppo ancora aperte della storia dell’umanità, non è alla portata dei bambini più piccoli. Lo stesso modo in cui Salgari affronta questi argomenti non lascia spazio a dubbi: l’opera è destinata agli adulti o ai ragazzi che già hanno affrontato buona parte della loro carriera scolastica e dunque comprendono meglio i risvolti umani e storici e letterari della vicenda.
Infatti I Drammi della schiavitù, oltre ad essere un romanzo toccante ed emozionante, è costellato da situazioni avventurose, ma sempre venate di una cupa drammaticità.
Le tematiche che fanno da corollario a quella della schiavitù sono molteplici: l’amore, l’odio, la passione, l’attrazione, la rabbia, l’egoismo, la paura, lo spaesamento, la perdita della razionalità e del controllo, il terrore, l’angoscia, il furore, la malvagità, il potere. C’è tutto ciò che rappresenta l’umanità: i buoni sentimenti, ma anche e soprattutto i cattivi sentimenti.
Tutto questo viene trattato senza mezze misure: dalla descrizione degli eventi a quella dei personaggi, non c’è una sola zona opaca o lasciata al caso. Ogni cosa è fortemente caratterizzata, si potrebbe addirittura dire che abbia una vita propria ed un percorso proprio che continua al di fuori del romanzo. In realtà questo è ciò che si vede in superficie. La bravura di Salgari è stata proprio nel saper tratteggiare minuziosamente la storia e gli stessi personaggi, dando l’impressione che fossero questi ultimi a dipanare la vicenda con la loro forza, ma in realtà è l’autore a tenere le redini dell’opera. E lo fa con la maestrìa di chi ha dedicato una vita alla scrittura.
Si veda per esempio la descrizione del capitano Alvaez:

Quell’uomo poteva avere trentacinque o trentasei anni. Era di statura elevata, di forme vigorose ma eleganti, di carnagione assai abbronzata, quasi olivastra, ma con due occhi di un nero scintillante, che delle donne gli avrebbero invidiati, ed i lineamenti fini ed energici, ombreggiati da una barba nera tagliata all’americana… Nessun pericolo lo sgomentava. Sfidava con sangue freddo straordinario e le più tremende tempeste, e le insidie degli incrociatori… Rotto a tutte le avventure, pronto a tutto, nessuna cosa lo sgomentava, e sfidava imperterrito la morte, con una temerità, che rasentava la pazzia.

Questa descrizione rende in maniera concreta tutto ciò che è stato detto finora. Dal punto di vista letterario è perfetta; non manca nulla. Già dalle prime parole il lettore capisce che si trova di fronte ad un uomo passionale, forte e vigoroso, forse anche un pizzico selvaggio.
E che dire della descrizione della bella Seghira?

[...] una giovane donna, dalla carnagione leggermente abbronzata, le cui forme erano coperte da una specie di mantello di leggera mussola, stretto alla cintola da una fascia di seta rossa… poteva avere sedici o diciassette anni; i suoi lineamenti graziosi, ma arditi… tradivano la sua origine europea… Le sue forme opulente ma insieme eleganti, il suo sguardo che a volta sembrava dolce ed a volta selvaggio, la sua pelle che pareva vellutata e morbida… i suoi lunghi capelli neri più dell’ebano, la sua bocca dalle labbra vermiglie… quelle sue mosse che avevano un non so che di felino, quel fremito potente di gioventù e di energia, che faceva vibrare quelle carni… [...]

Da questa descrizione si vede benissimo che Salgari ha avuto una particolare attenzione per questo personaggio. Le parole che usa sono scelte accuratamente e mirano dritto allo scopo: presentare una donna sensuale, una sorta di femme fatale che non è solo apparenza, ma ha anche un carattere estremo e passionale, proprio come quello del capitano Alvaez. Senza anticipare nulla dell’alchimia che si crea tra questi due personaggi, si può però dire che è chiaro fin dalle prime parole delle descrizioni che Alvaez e Seghira saranno alcune delle colonne portanti del romanzo.
La vicenda è raccontata con lo stesso vigore dato ai personaggi. Non ci sono pause; i momenti di attesa sono sempre adrenalinici. Si attende qualcosa, il lettore lo percepisce subito e così anch’egli inizia ad attendere ansiosamente, insieme ai personaggi, quel che verrà. I momenti di azione sono quasi di liberazione per il lettore che ha atteso. Si veda ad esempio l’inizio del romanzo, in cui il capitano sa che ad attenderlo ci sono due incrociatori, le navi che a quel tempo (la vicenda si svolge nel 1858, lo dice lo stesso Salgari nel capitolo dedicato al re Bango), avevano il compito di ostacolare e catturare i negrieri per metterli a morte, liberando gli schiavi prigionieri sulle navi negriere dirette in America.
All’inizio c’è solo il presentimento di Mastro Hurtado, poi si intravedono dei razzi (visti dallo stesso Mastro Hurtado e da Vasco) poi la notizia della presenza degli incrociatori giunge al capitano Alvaez, che continua comunque a trattare con re Bango per l’acquisto degli schiavi. Sa cosa lo attende e il pensiero degli incrociatori ritorna di continuo nella sua mente e sulle pagine del libro, creando attesa e suspence nel lettore.
Infine il capitano affronta il rischio, carica la nave Guadiana degli schiavi appena comperati ed esce per mare, pronto a risolvere la questione una volta per tutte e confidando nel proprio coraggio e in quello dei suoi uomini. Ed è nella battaglia seguente che si risolve il senso di attesa, ma non la suspence, che permane nella mente del lettore per tutta la durata dello scontro.
E’ proprio nella descrizione di scene come questa che Salgari dimostra tutta la sua capacità ed esperienza nel creare e dosare l’aspettativa e l’attesa. Non è da tutti saperlo fare cosi bene.
Altri due punti meritano di essere analizzati, il primo è la ricostruzione storica: anche in questo l’autore si è dimostrato molto attento: si pensi, ad esempio, al capitolo intitolato La Tratta, che è un vero e proprio inserto storico che blocca la narrazione e fa il punto della situazione, spiegando cos’è la schiavitù, come è nata, a quali conseguenze ha portato. E’ il capitolo più commovente del libro. Narra le atrocità perpetrate dai negrieri ed è cosi realistico che sembra quasi di vedere e di poter toccare i poveri corpi straziati degli schiavi. E’ in queste poche pagine che viene fuori il deciso sentimento antischiavista di Emilio Salgari: egli non descrive le torture per semplice cronaca o per sensazionalismo: crede fortemente in ciò che scrive, vuole raccontare la verità, spiegare al lettore cosa sta leggendo e, nello stesso tempo, chiarire la propria posizione.
Dopo la lettura di questo capitolo, lo stesso lettore troverà ancora più difficile decidere con chi schierarsi: se con gli incrociatori che vogliono liberare gli schiavi, o con Alvaez ed i suoi, che dimostrano comunque tutta la loro umanità man mano che il racconto procede. Apparentemente può sembrare scontato decidere da che parte stare, di fatto non lo è sempre: certo, non si arriva mai a giustificare determinate azioni e nemmeno il fenomeno della schiavitù, questo è ovvio, (si è anche già parlato della posizione dell’autore a questo proposito), ma Salgari mette il lettore di fronte a degli uomini che hanno sentimenti, zone d’ombra, difficoltà, che patiscono sconfitte esistenziali e questo comunque li rende più vicini e più umani.
L’unica cosa da fare sarebbe leggere il romanzo restando un passo indietro, senza lasciarsi coinvolgere: di fatto è impossibile. L’autore ha costruito l’opera proprio perché ci si immedesimasse anche nei personaggi più scomodi e la stessa storia non può lasciare indifferente nessuno. Solo il finale riesce a ricomporre, ma per grandi linee, in maniera del tutto inaspettata, questa scissione che si crea nel lettore, ristabilendo, almeno in apparenza, l’ordine delle cose inizialmente sconvolto.
L’ultimo punto da analizzare riguarda uno dei modelli di Salgari per I Dramm: Edgar Allan Poe.
Il nome di questo autore viene messo in risalto da Claudio Gallo nell’introduzione all’edizione Fabbri di I Drammi della Schiavitù.
Il riferimento letterario preciso è all’opera Le Avventure di Gordon Pym. In entrambi i romanzi, infatti, c’è un cupo e mortale senso di orrore, per esempio, quando si accenna al cannibalismo e le descrizioni dei luoghi e delle atmosfere (la nave, il mare) hanno molto in comune. Però Salgari è lontano dal genere gotico e infatti I Drammi della Schiavitù non appartiene a questo genere; nel Gordon Pym di Poe il terrore è sempre palpabile, colpisce l’inconscio del lettore, creando un romanzo molto angosciante, quasi paralizzante per chi lo legge.
Nei Drammi, invece, ci sono dei momenti di respiro e la narrazione non è sempre così cupa e tetra.
In conclusione I Drammi della Schiavitù è un libro da leggere tutto d’un fiato, in cui niente è come sembra. La storia prende, piano piano, una piega inaspettata e questo scombussola le idee che il lettore si è fatto all’inizio. Chi scrive, però, non vuole accennare nulla di più. Sarebbe un peccato rovinare questa scoperta (chi scrive ha purtroppo anche esperienza diretta di ciò e sa quanto possa essere irritante).
Uno dei pregi di quest’opera è proprio quello di poterla scoprire pagina per pagina, e di non perdere mai il gusto di una lettura piena di sorprese fino alla fine. Ancora una volta la storia attende solo qualcuno che la legga per poter rivivere di nuovo.



La schiavitù

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo (Seneca).



La schiavitù ha origini antiche e una storia complessa, indissolubilmente legata alle vite, al dolore e alle privazioni dei milioni di uomini che ne furono vittime. Il commercio degli schiavi fu estremamente redditizio in ogni epoca e influenzò la storia di gran parte dei popoli africani.
Il fenomeno può apparire, ad una prima occhiata, omogeneo, sempre uguale a se stesso in tutto il mondo e in ogni epoca, senza discrepanza alcuna.
La verità è molto diversa: lo schiavismo, infatti, è costituito da modalità che variano a seconda del luogo e del tempo in cui vengono attuate. Si potrebbe paragonarlo ad una piovra che con i suoi tentacoli avvolge tutto il mondo e tutta la storia di questo.
Questo articolo si propone di analizzare, senza pretese di completezza, soprattutto la schiavitù nell’età moderna, che è quella in cui visse Salgari e in cui ambientò parte della sua opera. In questo modo si potrà tentare di capire qualcosa in più di uno dei tanti temi affrontati nei romanzi di questo autore, a cui egli dedicò pagine interessanti e sempre attuali, curandone meticolosamente non solo l’aspetto artistico e letterario, ma anche quello della ricerca e dell’approfondimento storico.

Nel mondo antico la schiavitù fu presente in tutte le epoche e in tutte le società, dal Vicino Oriente all’antica Roma e nel tempo il termine venne usato con diverse accezioni. Oggi, per esempio, indica una istituzione per cui determinati gruppi di individui sono privati della capacità giuridica e si trovano, come beni materiali, in proprietà di un padrone.
Nell’antichità questo concetto differiva in alcuni punti: essa era considerata di norma come naturale. Il suo fondamento e la sua legittimità non furono mai messi decisamente in discussione, nemmeno con l’avvento del Cristianesimo.
Un caso emblematico può essere quello del Vicino Oriente, in cui la schiavitù costituì un fenomeno legato all’emergere della civiltà urbana e del palazzo. Nella concezione orientale ogni uomo dipendeva dal re e, in quanto tale, era servo. In effetti questo era il termine con il quale, nelle lingue del Vicino Oriente, si indicavano tutti i rapporti di dipendenza; questi, però, non sempre configuravano un rapporto preciso di schiavitù, ed è perciò difficile, nei documenti, precisare sempre la separazione tra la condizione di servo e quella di schiavo. Inoltre non tutti gli schiavi avevano analoga posizione.
Un’altra difficoltà è definire i limiti entro i quali il mondo antico era una società schiavista, cioè fondata sulla contrapposizione tra liberi e schiavi e ciò per tre motivi:
  • nelle società antiche il fenomeno ebbe una lunga evoluzione;
  • in secondo luogo mancano molti dati, qualitativi e quantitativi, per giudicare l’effettiva incidenza del fenomeno sul piano sociale ed economico;
  • infine, proprio perché essa era un’istituzione estremamente articolata al suo interno, non solo tra epoca ed epoca, ma anche in uno stesso periodo e luogo.
    L’esistenza, sia nella Grecia classica sia a Roma, di forme di dipendenza diverse da quelle schiavili, ma vicine ad esse, e la varietà delle condizioni di vita degli schiavi, spiegano molti aspetti della società antica: la mancanza di una teoria organica della schiavitù come fattore economico, per esempio, o il fatto che gli schiavi non svilupparono mai una coscienza del loro stato, se non in momenti e condizioni particolari.
    Ciò perché non erano un gruppo omogeneo e tendevano ad assimilare i modelli dominanti.
    La schiavitù non scomparve con la fine dell’impero romano. Con il rapido sviluppo dell’economia intorno all’anno Mille lo stato giuridico degli schiavi venne definitivamente assimilato a quello dei servi della gleba.

    Tra Duecento e Quattrocento i maggiori mercanti furono i musulmani, presso i quali la schiavitù aveva una grande importanza economica: si vendevano come schiavi i marinai e i passeggeri delle navi catturate dai corsari berberi, i prigionieri delle lotte fra turchi e cristiani, i negri razziati nell’Africa settentrionale o in Sudan. Numerosi erano anche i mercanti occidentali, che vendevano in Oriente prigionieri cristiani.
    Questo commercio conobbe un notevole incremento quando i portoghesi, nel XV secolo, si spinsero lungo le coste occidentali dell’Africa, procurandosi direttamente i negri da vendere.
    Proprio dal XV secolo il fabbisogno di manodopera, per lo sfruttamento delle miniere e per il lavoro nelle piantagioni del Nuovo Mondo, portò ad una ripresa su vasta scala, del commercio degli schiavi. Infatti gli indigeni delle Americhe si rivelarono ben presto incapaci di sopportare le condizioni di lavoro imposte dai conquistatori.
    Un’importanza particolare in questa tratta assunse il problema dell’asiento, cioè del monopolio concesso alle compagnie mercantili per il commercio degli schiavi neri da importare nelle colonie spagnole d’America.
    Concretamente per assento si intendeva un contratto stipulato tra la corona e una compagnia mercantile, in virtù del quale lo Stato spagnolo concedeva all’asientista un monopolio commerciale, congiuntamente ad un’esenzione dalle tasse. Il beneficio tratto dallo Stato poteva essere sia una forma di compartecipazione agli utili realizzati dalle compagnie mercantili, sia il vantaggio derivante da una più intensa espansione coloniale, tramite un aumento della popolazione dei territori d’oltremare dedita a servizi utili allo Stato.
    Dell’asiento si avvantaggiarono non solo mercanti spagnoli, ma anche portoghesi e inglesi.
    Nel XVIII secolo il mercato degli schiavi nelle Americhe spagnole perse gradualmente terreno, in seguito alla crescita nelle colonie della popolazione indigena e meticcia e delle sviluppo del sistema di peonia nelle haciendas.
    Così, nel 1789, la Spagna liberalizzò la tratta degli schiavi e nel 1817 aderì al trattato per l’abolizione della schiavitù.
    Il declino del traffico degli schiavi nelle colonie spagnole coincise con la sua espansione nell’America settentrionale. Qui il fenomeno della schiavitù si verificò relativamente tardi: la prima nave negriera, battente bandiera olandese, approdò sulle coste della Virginia nel 1619. Con lo sviluppo delle piantagioni di tabacco, nel XVIII secolo, l’istituto sociale della schiavitù acquistò un peso considerevole.
    La diminuzione delle piantagioni di tabacco, a causa dell’impoverimento dei suoli adibiti a questa coltura, portò ad un rallentamento dell’economia agraria fondata sulla schiavitù, che terminò solo nel 1793 con l’invenzione della cotton gin, la macchina sgranatrice del cotone. Il numero degli schiavi negli Stati Uniti toccò la punta massima 4.441.830 unità nel 1860, alla vigilia della guerra civile.
    Attorno alla piantagione di cotone, che si diffuse nelle regioni meridionali degli Stati Uniti, si costituì un vero e proprio modello di società: fondato sulla schiavitù, esso espresse una cultura e un’etica sociali improntate ad una concezione paternalistica. Era la prestazione lavorativa coatta, e non un rapporto basato sul lavoro salariato, a governare le relazioni tra i piantatori ed i loro schiavi.
    Tuttavia la produzione di cotone era destinata ad alimentare l’industria tessile mondiale: venne così a crearsi, nel sud degli Stati Uniti, una formazione sociale anomala caratterizzata per un verso dall’esistenza di un rapporto con il mercato mondiale, per l’altro dalla persistenza di un modello rurale di vita, in contrapposizione al sistema urbano industriale che stava diventando egemone nelle regioni settentrionali degli Stati Uniti.

    Fin qui un’introduzione che, però, sfiora soltanto la complessità e la vastità del fenomeno. Per arrivare a scoprire e capire un po’ di più, occorre analizzare quelle che furono le “tratte degli schiavi”. Esse non furono solo le ramificazioni geografiche del commercio degli schiavi, ma anche le ramificazioni storiche. E’ da questi percorsi, infatti, che nacquero nuovi popoli, dalle mescolanze di razze che venivano da posti lontani che presero vita nuove culture.
    Le tratte sono tre: la tratta settentrionale, la tratta orientale e la tratta atlantica.
    La prima è la forma più antica di tratta degli schiavi in Africa e avveniva tramite le rotte trans-sahariane: gli schiavi venivano catturati nelle zone subsahariane e trasportati a nord attraverso il deserto. Questa antichissima pratica assunse la connotazione di rete commerciale solo nel X secolo, con l’introduzione del dromedario dall’Arabia. Non è affatto facile quantificare questo commercio: si parla di 6000 o 7000 schiavi deportati ogni anno, ma la stima è approssimativa. Gli schiavi venivano venduti nei mercati del Maghreb: alcuni venivano destinati al servizio militare, le donne erano destinate agli harem, mentre molti altri schiavi finivano al servizio negli stessi harem come eunuchi.
    Ci si può fare un’idea della situazione dalla biografia del sultano marocchino Moulay Ismail (1672-1727), che possedeva un’armata di 150000 schiavi neri chiamata La Guardia Nera, con cui sottomise tutto il regno.
    La tratta orientale, invece, nacque tra il IX e X secolo, dopo la caduta dei regni cristiani della Nubia. Gli arabi riuscirono a conquistare il controllo delle rotte dell’Oceano indiano e a commerciare schiavi che provenivano principalmente dalle coste occidentali dell’Africa. Il numero delle vittime di questo terribile commercio crebbe proporzionalmente all’aumentare della velocità delle navi e della richiesta di manodopera per le piantagioni in Oriente. Si calcola che circa 40000 schiavi all’anno passassero per i porti dell’Oman.
    I commercianti arabi si servivano spesso, per ottenere schiavi, di intermediari locali, che potevano anche essere regni o tribù dominanti. Questi intermediari sfruttavano il rapporto con i mercanti per ottenere benefici come le armi, da usare per assicurarsi il predominio in determinate zone.
    La tratta atlantica, conosciuta anche come Middle Passage, ebbe una storia più breve e più recente rispetto alle altre due: iniziò, infatti nel XVI secolo, ma fu altrettanto crudele. La richiesta di schiavi proveniva dal Nuovo Mondo e la prima nazione che ebbe il monopolio di questa tratta fu il Portogallo; poi, con l’apertura del mercato nordamericano, furono gli inglesi ad aggiudicarsi il monopolio della tratta atlantica.
    Dapprima gli schiavi vennero destinati alle piantagioni di canna da zucchero a Sao Tomè e Capo Verde. Poi, nella prima metà del XVI secolo, iniziò anche la tratta verso i Caraibi. La costa africana da cui partivano gli schiavi divenne tristemente nota come La Costa degli schiavi o Diego Cao. Con questa espressione si intende il tratto di costa compreso tra la foce del Niger e il Golfo di Guinea.
    Oggi questa zona, lunga circa 450 Km, corrisponde alle coste degli Stati del Togo e del Benin e della Nigeria occidentale. Le navi partivano dall’Europa con prodotti commerciali (stoffe, tabacco, armi, ecc) che servivano come merce di scambio per l’acquisto degli schiavi da portare nelle Americhe, da dove ripartivano cariche di materie prime. Questo percorso è ciò che si intende per “commercio triangolare.
    E’ molto interessante notare che i cattolici ricorsero a vari documenti per giustificare il commercio degli schiavi, come la bolla Dum diversas del 1452 in cui papa Nicola V dà diritto al re del Portogallo Alfonso V di ridurre in schiavitù qualunque saraceno, pagano o senza fede. Invece i protestanti non ricorsero ad alcuna giustificazione per parteciparvi.
    Come avveniva il viaggio che portava gli schiavi da una costa all’altra dei vari Paesi interessati a questa tratta? Quali peripezie dovevano affrontare questi poveri uomini?
    Purtroppo questo tipo di viaggi si assomigliano un po’ tutti a causa della crudeltà, della violenza, delle malattie e delle morti; nel caso della tratta atlantica, per esempio, i commercianti o gli intermediari catturavano o acquistavano in Africa indigeni da rapitori o monarchi africani. Questi ultimi, a loro volta, li avevano ridotti in schiavitù per punizione o perché bottino di guerra. Iniziava il viaggio a piedi o in canoa verso la costa. Durante la marcia gli schiavi, legati, dovevano portare sulla testa oggetti come pacchi od otri piene d’acqua. Questo tragitto poteva durare giorni o settimane. Una volta arrivati, gli schiavi venivano imprigionati in fortezze dette barracoons, dove attendevano i trafficanti che li avrebbero caricati sulle navi per la traversata verso le Americhe.
    Si stima che il 15% degli schiavi non sopravvivesse al viaggio in mare.
    La traversata poteva durare diverse settimane, a seconda delle condizioni atmosferiche. Nel XIX era possibile coprire l’intero percorso in sei settimane grazie ad un accorgimento tecnico; la copertura dello scafo delle navi con lastre di rame. Questa miglioria consentì anche di ridurre la presenza di umidità all’interno dello scafo stesso.
    Di solito gli schiavi erano trasportati a centinaia, mentre l’equipaggio era formato da una trentina di persone, il doppio rispetto alle navi normali, al fine di respingere eventuali insurrezioni.
    I prigionieri maschi erano incatenati a coppie, la gamba destra di uno legata alla gamba sinistra dell’altro. Le donne e i bambini avevano un po’ più di spazio; le stesse donne e le ragazze salivano a bordo delle navi nude, tremanti ed esauste per la fatica, la fame e il freddo.
    Si può inoltre immaginare il loro spaesamento ed il loro terrore nel trovarsi tra gente che parlava lingue a loro incomprensibili e che aveva modi a dir poco rudi. Il pasto dei prigionieri consisteva in patate, mais, riso, fagioli e olio di palma in uno o due pasti al giorno, ma le razioni erano troppo scarse per poterli sfamare. Era concesso mezzo litro di acqua al giorno, quantità insufficiente per l’idratazione corporea, soprattutto a causa del mal di mare e della diarrea che frequentemente colpivano gli schiavi.
    Inoltre le malattie come il vaiolo, l’inedia, la sifilide, il morbillo, la dissenteria e lo scorbuto si diffondevano molto rapidamente a causa delle scarse o del tutto inesistenti condizioni igieniche.
    Non si deve però dimenticare che, a causa di stress molto forti e prolungati come questo tipo di viaggi, non è solo il corpo ad ammalarsi, ma anche la mente. Infatti era molto frequente vedere su queste navi schiavi depressi e senza più voglia di vivere a causa della perdita di libetà, della famiglia, dell’allontanamento forzato dal Paese natìo. I suicidi non erano rari e gli schiavisti facevano di tutto per prevenirli: ricorrevano all’alimentazione forzata, alle frustate, o alle catene tenute durante tutto il tragitto.

    Nel XIX secolo gli abolizionisti denunciarono la schiavitù come pratica immorale, ma anche come danno nei confronti dei Paesi da cui venivano prelevati gli schiavi. Si arrivò perfino a parlare di Diaspora nera o Diaspora africana.
    Quest’ultimo punto suscitò molti dibattiti, perché si sostenne che in realtà l’impatto demografico sui Paesi africani non era catastrofico: infatti il numero di schiavi sottratto era di certo molto alto, ma comunque inferiore al tasso di crescita delle popolazioni africane. Tra l’altro non si può e non si deve dimenticare che questo ingiusto commercio comportò anche un afflusso di ricchezze verso l’Africa. E’ un dato, questo, che non giustifica e non assolve chi fu coinvolto nella tratta di esseri umani e non rende meno grave questo fenomeno; però, in quanto elemento storico integrante di ciò di cui si sta scrivendo e per l’obiettività con cui le analisi di questo tipo devono essere condotte, esso non può essere tralasciato.
    La lotta allo schiavismo venne usata, secondo molti studiosi, come un pretesto dagli europei per la loro espansione coloniale; alla fine del XIX secolo tutta l’Africa era stata spartita in colonie nelle quali la schiavitù era stata abolita (tranne qualche eccezione, come l’Etiopia, in cui venne abolita nel 1932 con l’occupazione italiana).
    Di sicuro la tratta ebbe un grande impatto economico sull’occidente. Furono gli schiavi a permettere lo sfruttamento di miniere e lo sviluppo delle zone agricole in varie parti del mondo. Queste attività permisero l’accumulo di capitali e quindi il processo di industrializzazione.
    Insomma, lo schiavismo rimase in vigore fin quando ebbe un’utilità economica non contestata sul piano politico. Con la rivoluzione francese, però, qualcosa cominciò a cambiare: ci fu una progressiva presa di coscienza del valore dei diritti umani. Infatti la Francia fu la prima nazione ad abolire la schiavitù nel 1794 (poi reintrodotta da Napoleone nel 1802 e abolita definitivamente nel 1848), mentre nel 1833 toccò al Regno Unito.

    Non esistono stime certe riguardo il numero totale di schiavi che hanno lasciato il continente. Di certo nessuno ha mai messo in dubbio che la cifra sia molto alta e che il fenomeno sia stato tra i più tristi e dolorosi della storia dell’uomo. A dire il vero, però, la schiavitù non è mai del tutto sparita. Si è trasformata, si è resa invisibile, si è nascosta, ma è ancora presente in tutto il mondo.
    Sono cambiati i sistemi, una parte dei popoli schiavizzati, ma è impossibile dire che la schiavitù sia solo un brutto ricordo.
    Molti recenti fatti di cronaca hanno mostrato che la schiavitù ha sempre avuto molte facce: non solo quella dell’africano incatenato ai ceppi, che già di per sé è un eloquente emblema, ma anche quella della cieca sottomissione, della totale mancanza di libertà di pensiero, parola e religione che purtroppo esiste ancora oggi in molti luoghi e colpisce uomini, ma soprattutto donne. Lo stesso analfabetismo è una forma di schiavitù, perché impedisce all’individuo di capire, di pensare, di difendersi, di vivere in modo dignitoso. Ed è proprio questo il punto: schiavitù è tutto ciò che priva l’essere umano di una vita dignitosa e libera e purtroppo ci sono ancora troppi esempi di queste privazioni intorno a noi.

    Non manca il materiale per chi voglia approfondire questo vastissimo ed interessante fenomeno, che, purtroppo, per ovvi motivi di spazio e di argomento, non può essere completamente esaurito qui (si pensi, ad esempio, a tutte le fonti che trattano anche argomenti strettamente legati alla schiavitù, come la storia degli afroamericani, il razzismo, il Ku Klux Klan, l’apartheid…).
    Innumerevoli libri sono stati scritti, non solo saggi, ma anche toccanti romanzi, come per esempio la saga di Radici di Haley Stevens, oppure La Capanna dello Zio Tom di Harriet Beecher Stowe, Il Colore Viola di Alice Walker, Via Col Vento di Margaret Mitchell, la saga di Angelica La Marchesa degli Angeli di Anne e Serge Golon e, ovviamente, I Drammi della Schiavitù di Emilio Salgari, ma si potrebbe continuare ancora per molto.
    L’importante è continuare ad informarsi, a leggere, tentare di capire il valore storico e attuale di questo e di altri avvenimenti, perché anche l’ignoranza è una forma di schiavitù.
    Delle più pericolose.

    Francesca Asia Rossi



  • Bibliografia:
  • Enciclopedia Europea, Edizioni Garzanti, 1979;
  • Il Prossimo Golfo. Il Conflitto per il petrolio in Nigeria, Andy Rowell, James Marriott, Lorne Stockman, Edizione “Terre di Mezzo”, 2005;
  • www.wikipedia.it, voci: tratta atlantica degli schiavi africani, schiavismo in Africa, costa degli schiavi.
  • Appunti di viaggio

    Indice!

    Questo sito è ideato e gestito da La Perla di Labuan