Cartoline da Titicaca e La Spezia



Luoghi così lontani riuniti in una sorta di “gemellaggio” letterario? Li troviamo nei romanzi di Emilio che potremmo definire “del sottosuolo”.

Com’è noto, i due unici romanzi di Salgari ambientati esclusivamente nel sottosuolo (ma in diversi altri non mancano gli episodi emozionanti che hanno come scenario caverne e misteriosi sotterranei) sono Duemila leghe sotto l’America del 1988 (ripubblicato nel 1907 con aggiunte e il titolo Il tesoro misterioso) e I naviganti della Meloria (edito nel 1902 con lo pseudonimo di Enrico Bertolini).
Questo secondo titolo è un evidente calco del primo: anch’esso, infatti, narra la navigazione effettuata da quattro audaci nelle profondità della terra a bordo di un battello smontabile. Diversa però è l’ambientazione: se nel primo, come recita il titolo, il percorso si svolge per duemila leghe dal Kentucky al Perù, l’altro riguarda un tunnel che attraversa l’Italia dalla foce del Brenta, sul Mare Adriatico, ai dintorni del golfo di La Spezia, sul Tirreno. Diverse sono anche le motivazioni del viaggio: la conquista di un favoloso tesoro, quello degli Incas; la verifica dell’esistenza, fra i due mari italiani, di un canale scavato all’epoca delle contese fra le repubbliche marinare. E diverso è pure il finale: se nel primo racconto muoiono buoni e cattivi senza alcun superstite (ciò che è insolito in Salgari), nel secondo i personaggi positivi riescono a portare a termine la loro missione a differenza dei loro avversari, la cui esistenza si conclude tragicamente.
Entrambi i romanzi sono ricchi di suspense a motivo dei numerosissimi pericoli affrontati nel corso delle improbabili spedizioni: assalti di topi, di pescecani, di polipi giganti e perfino di orsi antidiluviani, frane, cateratte, vortici, laghi di petrolio e miniere di carbone in fiamme, fontane ardenti, acque bollenti, eruzioni vulcaniche, terremoti, inondazioni, grisou… Oltremodo suggestive le descrizioni che Salgari fornisce dei tenebrosi recessi del sottosuolo e di certi fenomeni naturali.
Dopo tante tenebre, si giunge finalmente alla luce del sole. E cosa si vede? È come se lo scrittore ci inviasse una cartolina dal lago Titicaca e un’altra dal golfo di La Spezia. Ecco la prima:

– Dove sono?... Dove sono – si chiese [l’ingegner Webher, unico superstite, ma ancora per poco, del viaggio sotto l’America] – Oh, miei poveri compagni!... Poveri compagni!...
Poi si precipitò verso quel crepaccio, lo attraversò e si trovò su di una rupe tagliata a picco, su una vasta distesa d’acqua azzurrina cinta da colli verdeggianti e da superbe catene d’altissimi monti.
– Dove sono?... Dove sono?... – ripeté.
Guardò l’ampia superficie d’acqua, le cui onde venivano a infrangersi contro la rupe con muggiti prolungati. In lontananza alcune barchette, colle vele sciolte al vento, bordeggiavano; più lontano apparivano dei punti bianchi aggruppati sull’estremità di un’isola che pareva molto grande; e ancora più lontano si vedevano altre isole e dei picchi aguzzi, verdi alla base, giallastri o azzurri verso la metà, bianchi come se fossero coperti di neve, sulla cima.
Degli uccelli giganteschi volavano con incredibile velocità al disopra di quelle acque, dirigendosi verso quelle lontane catene di monti.


Il Titicaca, dunque. Esteso dal sud-est del Perù alla Bolivia occidentale, è il lago navigabile più alto al mondo (3.810 metri) e il più vasto del Sudamerica, punteggiato da oltre quaranta isole di varia grandezza, tra cui Taquile, Amantani e l’Isola del Sole. Ad esse vanno aggiunte le ancor più numerose Uros: isolotti galleggianti abitati dagli indigeni di tal nome, che li hanno costruiti utilizzando le canne palustri che abbondano nella acque basse. E a proposito di acque, quelle del Titicaca sono di un blu intenso e di straordinaria limpidezza. Limpidissima è pure l’aria, al punto che le catene montagnose e i picchi citati da Salgari, per un fenomeno ottico, appaiono più vicini di quanto non siano in realtà.
Che questo lago sia stato la culla della civiltà incaica, e quindi ritenuto sacro, lo dice la leggenda secondo la quale presso il luogo dove ora è l’Isola del Sole sorsero i fondatori della città di Cuczo, origine di quello che sarebbe diventato l’Impero degli Incas. Da loro, probabilmente, discendono gli indigeni di varie etnie che attualmente abitano le rive e le isole del Titicaca; essi però non hanno però nulla in comune con i sanguinari curachi che, nel romanzo salgariano, fecero la pelle allo sventurato ingegner Webher, sopravvissuto allo scoppio del grisou: vivono infatti pacificamente di agricoltura, pesca, allevamento di bovini, pecore e alpaca, di turismo e prodotti artigianali.
Ed ora la seconda “cartolina”, stavolta dall’Italia:

Giunti all’aperto i quattro esploratori mandarono un fragoroso urrah!... Il golfo della Spezia, illuminato da un superbo sole, si apriva dinanzi ai loro sguardi stupiti.
In lontananza biancheggiavano le case e le superbe fortificazioni della prima piazzaforte d’Italia e pel golfo veleggiavano in gran numero barche pescherecce e fumavano dei grandi vascelli, forse le poderose corazzate della nostra squadra.
Il dottore ed i suoi compagni, raggiunta la riva, s’arrampicarono lestamente sulle scogliere e di lassù spaziarono i loro sguardi all’intorno.
Sulla loro destra, annidate fra le rupi, apparivano Lerici e San Terenzo; alla sinistra si prolungava sull’azzurro mare la punta Maralunga.

Scrive a questo proposito Felice Pozzo, che ha controllato personalmente il luogo dal quale i “naviganti della Meloria” possono essere sbucati: «Giusto ai piedi dell’antico castello monumentale di Lerici. È solo in un punto di quella scogliera, accanto al molo di Calata Mazzini, che si può godere il panorama descritto con tanta precisione. San Terenzo è un borgo noto per aver ospitato Shelley e Byron e Maralunga, dalla parte opposta, è una punta di terra e scogli che prende il nome dal relitto di una nave oneraria romana».

Oreste Paliotti


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