Bollywood Salgariana



Bollywood, vale a dire il cinema popolare indiano, in Italia continua ad essere un “continente misterioso”, per citare un titolo del nostro autore. Il mistero, probabilmente, è destinato a rimanere tale ancora per molto tempo, visto che gli esploratori deputati all'analisi delle sue giungle, vale a dire i critici cinematografici, continuano ad esibire, a tal proposito, una preoccupante pigrizia, incuranti o ignari di un piccolo dato di fatto: Bollywood ormai, a livello globale, fattura quanto se non più, di Hollywood. Ma tant'è; i critici italiani continueranno imperterriti a spacciare i soliti luoghi comuni, tipo quello su “l'immancabile lieto fine” o magari “il totale irrealismo delle sceneggiature” ( si noti che questi sono gli stessi che dedicano sontuose monografie ad eroi del verismo quali Dracula e King Kong).
Anche il titolo di questo intervento, a ben vedere, non ha molto senso. Salgari non è mai stato tradotto in alcuna lingua indiana, e solo recentissimamente lo è stato in inglese. La questione andrebbe capovolta: si può forse dire che Salgari sia “bollywoodiano”? La risposta, a mio parere, è sì. L'India che Salgari vide con gli occhi della mente possiede senz'altro i colori, la grinta, la sensualità, la musicalità nonché – se vogliamo – anche il caos che noi ritroviamo in questa cinematografia; inoltre, cosa ben più importante, Bollywood, a differenza di Hollywood, non ha mai perso di vista il concetto che il vero interesse di una storia deve consistere in una causa umana, e non negli “effetti speciali” o nell'adrenalina senza scopo; e questo è anche un concetto che il nostro autore, nel suo piccolo, ha sempre difeso con le unghie e con i denti, almeno nei suoi romanzi migliori, riuscendo così a conquistarsi un posto d'onore particolarissimo in mezzo a tante insulse “cacce al tesoro fra i selvaggi” che vennero scritte fra Ottocento e Novecento.
Può essere interessante, ad ogni buon conto, provare a dare un'occhiata a come il cinema indiano propone talune situazioni e talune immagini che noi siamo abituati ad associare con le opere salgariane.

Purtroppo non sono ancora riuscita a trovare su nessun supporto quello che, sulla carta, sembrerebbe il film più salgariano di tutti: Baaz (“Il falcone”, 1953, di Guru Dutt – da non confondersi con Baazi, “Gioco d'azzardo”, dello stesso autore).
La trama, che mi è stata segnalata via Internet da amici indiani, parla di una donna corsaro che, nel XVII secolo, combatte un'eroica battaglia sul mare contro i Portoghesi, nonostante la corrotta corte del Malabar sia disposta ad aprire le porte agli invasori pur di conservare intatti i propri privilegi. Guru Dutt, come ben sanno gli esperti, è uno dei grandi autori “maledetti” del cinema indiano (morì alcolizzato e suicida nel 1964). Questo film appartiene ovviamente alla sua fase più commerciale, ma deve trattarsi in ogni caso di un prodotto di eccellente livello, essendo Dutt notoriamente un idealista e un perfezionista. Al momento tutti i miei canali di rifornimento – pirati compresi, che siano benedetti! - sono stati allertati, e appena riuscirò a vederlo ne darò conto.

Sono invece riuscita a trovare un film dall'argomento molto simile (una specie di Zorro combatte gli Inglesi con l’aiuto di un vecchio pirata) ma, purtroppo, si tratta di un'opera di rara bruttezza. Sto parlando di Kranti, “Rivoluzione”, di Manoj Kumar, del 1981. Il regista doveva essere un raccomandato di ferro della Famiglia Nehru, poiché riesce a sprecare un ottimo cast e mezzi produttivi di tutto rispetto con la sua tecnica semi-dilettantesca. Dal punto di vista salgariano l’unica cosa interessante è un duello fra le protagoniste femminili, che comincia solennemente alla sciabola e finisce più o meno a padellate, come il primo scontro in cucina di Kill Bill.

Passiamo dalla leggenda alla storia. Tutti i lettori di Salgari ricordano certamente le pagine estremamente vivide che lo scrittore, ne Le Due Tigri, dedica al grande “Mutiny” del 1857. Inutile dire che il cinema popolare indiano ha da sempre dedicato molti progetti alle figure più pittoresche di questo episodio, a partire da “la bella e coraggiosa rani”, la regina di Jhansi, che fu protagonista di uno dei primi film in technicolor negli anni ’50. Tuttavia, il progetto di gran lunga più ambizioso sul Mutiny risale a pochi anni fa. Si tratta di Mangal Pandey – The Rising (Ketan Mehta, 2005), un film fortemente voluto dalla star Aamir Khan, appena reduce dal successo internazionale di Lagaan. Questo film non ha riscosso il successo che si sperava, probabilmente perché contiene troppi momenti “didascalici” sul contesto storico, il ruolo della Compagnia delle Indie, il triangolo dell'oppio ecc. ecc.
Tuttavia si tratta pur sempre di un prodotto spettacolare di tutto rispetto. Mangal Pandey, come è noto, altri non è che il primo “sepoy”, che si rifiutò di adoperare le famose cartucce trattate con grasso di maiale, innescando in tal modo la prima scintilla della rivolta. Forse pensando ad una distribuzione internazionale, il regista ha inserito anche uno degli episodi “immancabili” nei romanzi d'avventura dell'Ottocento, il salvataggio della vedova destinata al sati,uno spunto avventuroso già riscontrabile nel Giro del mondo in 80 giorni.

Un altro film molto interessante sul Mutiny del '57 è Junoon (“Passione”) di Shyam Benegal (1978). Non sarebbe Bollywood in senso stretto perché mancano dei veri numeri musicali, anche se la colonna sonora è molto presente e suggestiva. Non possiamo omettere questo titolo in quanto lo spunto storico è qui collegato con il classico tema salgariano dell'amore inter-etnico.
Il protagonista, Shashi Kapoor, è un ricco “pathan” non particolarmente interessato alla politica: coglie però l'occasione della rivolta per impadronirsi di una ragazza inglese che lo ossessiona da tempo. Il suo problema principale, in effetti, consiste nel fatto che è gia sposatissimo con la battagliera Shabana Azmi, l'attrice di Bollywood specializzata in ruoli femministi. In quanto mussulmano egli potrebbe benissimo prendere una seconda consorte, ma le prigioniere inglesi “fanno squadra” con le donne indiane della sua famiglia, capitanate da una formidabile zia che è la vera matriarca del paese (quante cose si imparano da questi film...) e andrà a finire che non potrà toccare la ragazza nemmeno con un dito. Quest'ultima, alla fine, si innamorerà di lui, ma ormai è troppo tardi e Shashi, vergognoso di aver anteposto la propria passione privata alla causa patriottica, andrà a morire da eroe sotto le mura di Delhi.

Qualunque “excursus” su Salgari a Bollywood, naturalmente, non può prescindere dall'incontro con una nostra vecchia, carissima amica: la Grande Dea Nera, Kali.
A mia conoscenza, l'unico film interamente dedicato ai “thugs” continua ad essere una produzione anglo-indiana del 1988, diretta da Nicholas Meyer, The Deceivers (edizione italiana: ”Sul filo dell'inganno”). Tutte le altre mie ricerche, sia in India che sulla rete, per il momento, hanno dato esito negativo. Anzi, alcune volte mi è parso di avvertire nelle risposte un profumo vagamente “corleonese”... Credo che insisterò nella ricerca, perché mi sembra ben strano che un paese che produce 900 film all‘anno non abbia mai utilizzato questo tema...

Ma se mancano i thugs, Kali non latita di certo. Come tutte le divinità associate con la morte, la Madre Nera, nella devozione popolare di Bollywood, assurge a simbolo della “democrazia terribile”, quella basata sulla fondamentale uguaglianza del sangue versato. Innumerevoli melodrammi ritornano incessantemente su questo concetto: inutilmente i ricchi prepotenti tentano di ingraziarsi la dea con il loro sporco denaro: Kali concederà sempre il suo favore al povero che vorrà mettere in gioco il proprio corpo (o, possibilmente, brandelli di esso).
Sotto questo punto di vista ho trovato particolarmente interessanti due film. Il primo è Chingaari (“Scintilla”), un film del 2006 diretto da una donna, Kalpana Lajmi, ed interpretato dall'ex Miss Universo Sushmita Sen. La protagonista è una prostituta di campagna che vive in un paesotto dove tutto il potere è saldamente concentrato nelle mani di un mascalzone che è al tempo stesso l'uomo più ricco, il capomafia locale ed il gran sacerdote di Kali.
Questa specie di Suyodhana è impersonato nientedimeno che da Mithun Chakravorthy, vecchio attore feticcio di Mrinal Sen. L'eroina troverà la forza di ribellarsi quando verrà assassinato l'uomo che ama, il quale, in mancanza di meglio, è colui che rappresenta lo stato laico da quelle bande: il postino (un'altra delle cose che si imparano da Bollywood è di non contare minimamente sulla polizia locale).
Il momento più interessante del film arriva alla fine: la Dea Nera, ignorando la religiosità ipocrita e tutta “ politica” del bramino, sposerà la sete di vendetta della prostituta di bassa casta. Sushmita verrà letteralmente “posseduta” dalla dea ed ucciderà il cattivo con l'ascia sacra dopo una specie di danza rituale, al termine della quale esulterà tirando fuori 10 centimetri di lingua: un momento abbastanza perturbante.

L’altro film che ha attirato la mia attenzione è Karan Arjun di Rakesh Roshan, un film del 1995 che fece una barca di soldi (il 45° incasso di tutti i tempi, secondo le stime più aggiornate di boxofficeindia.com).
Karan e Arjun (i nomi richiamano quelli dei fratelli rivali del “Mahabharata”) sono due “poveri ma belli” che vivono nel solito miserrimo villaggio. Spaccano pietre tutto il giorno e dormono per terra, ma vogliono tanto bene alla loro mamma e, in fondo, non sono infelici. Purtroppo, per motivi di eredità, entrano in conflitto con un ricco prepotente che li fa massacrare a sciabolate, fra la consueta indifferenza delle forze dell'ordine (tutto questo nei primi 10 minuti). Disperata, la madre si precipita nel tempio di Kali e invoca la restituzione dei figli. Siccome la dea non fa una piega, procede all'offerta del sangue, sbattendo ripetutamente la testa sopra un lingam di pietra. A questo punto, la dea non può dire di no, e fa prontamente reincarnare i giovanotti in due bambini che stanno nascendo in quel momento, da due famiglie diverse. Per grazia specialissima Karan e Arjun (che non si chiamano più così, ma non importa) conserveranno esattamente l'aspetto che avevano nell'incarnazione di prima, cosa che normalmente non sarebbe permessa. Per il resto, la dea si attiene alle statistiche: poveri in canna erano e poveri in canna rinascono. Vivranno emozionanti avventure giungendo quasi ad ammazzarsi a vicenda (Karan è diventato un picchiatore della malavita), ma il favore di Kali permetterà loro di ricostruire le proprie vite precedenti e di fare giustizia.

Chiudiamo qui, per il momento, questa breve rassegna che si limita, ovviamente, a scalfire solo la punta di un immenso iceberg. Non è improbabile che atmosfere ancora più tipicamente salgariane si ritrovino nella produzione avventurosa degli anni ’30, quando l’India era ancora sotto il dominio inglese. Queste pellicole, purtroppo, sono di difficilissima reperibilità, ma non c’è da disperare. Diamoci appuntamento in un prossimo futuro e ringraziamo ancora Salgari per tutte le fertili curiosità che ha saputo suscitare in noi.


Nicoletta Gruppi


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