Il tesoro della Montagna Azzurra




La prima edizione del romanzo fu pubblicata a Firenze, dall’editore Bemporad (l’ultimo dei grandi editori salgariani), nel 1907, con illustrazioni di Alberto Della Valle. Nello stesso anno, Bemporad pubblicò il romanzo anche in venticinque dispense.

Questa, in breve, la trama. Pedro e Mina De Belgrano, due giovani cileni figli del capitano Fernando, armatore di Valparaiso, del quale non si hanno più notizie da quattro anni, ricevono una visita inattesa. Il capitano Ramirez porta buone nuove ai due ragazzi. Egli, infatti, ha rinvenuto in mare un documento in cui Fernando De Belgrano, in punto di morte, comunica ai figli la scoperta, da lui stesso effettuata, di un favoloso tesoro su di un’isola sperduta della Nuova Caledonia, dove tempo prima aveva fatto naufragio. La località in questione, indicata come la Montagna Azzurra, è difesa da terribili indigeni che praticano ancora l’antropofagia ma che, comunque, venerano come una divinità lo stesso capitano Fernando. Solo ed esclusivamente i figli potranno avere accesso al tesoro, grazie al duplice amuleto allegato al messaggio. Il capitano Ramirez svela subito le proprie intenzioni, certo non disinteressate, offrendo a Pedro e Mina i propri servigi e la propria consumata esperienza marinaresca in cambio, però, della metà del tesoro. I due fratelli, ovviamente, rifiutano sdegnosamente ed egli, allora, fugge minacciandoli e trattenendo con sé uno dei due amuleti. Pedro e Mina decidono ad ogni modo di partire per la misteriosa isola, avvalendosi dell’ausilio del capitano José Ulloa, ottimo marinaio nonché grande amico del padre. Si imbarcano così sulla Andalusia di don José facendo vela verso la Polinesia. La corsa verso la meta della prospettata ricchezza sembrerebbe procedere senza problemi, ma la perfidia di Ramirez ha fatto sì che a bordo della goletta su cui viaggiano i due fratelli De Belgrano si annidasse il tradimento, ammantato di spoglie innocenti, quelle del giovanissimo mozzo Emanuel. Fra l’altro, le acque apparentemente tranquille del Pacifico vengono sconvolte, ad un certo punto, da una tromba marina di terrificanti proporzioni e l’Andalusia rischia di essere sommersa con tutto il suo equipaggio. I naufraghi si mettono in salvo su una zattera di fortuna, mentre «le speranze di sopravvivenza si assottigliano ad ogni istante: i viveri scarseggiano e la fragile imbarcazione è immobilizzata dalla bonaccia. Il mare, scrive Salgari, sembrava un deserto d’acqua “non meno terribile del grande Sahara africano” […]. I due giovani cileni […] scoprono che tra l’equipaggio dell’Andalusia si nasconde un traditore, poiché il sestante e il cronometro, strumenti necessari per calcolare la posizione, sono stati manomessi da una mano misteriosa. Col passare dei giorni, le sofferenze provocate dalla fame implacabile abbrutiscono i marinai. La loro cupa disperazione li spinge a emulare i tristemente famosi naufraghi della Medusa, rendendoli capaci di cibarsi della carne dei loro stessi compagni. La natura si incaricherà di porre fine a tali atrocità, giocando un brutto scherzo a quei poveri miserabili, e solo cinque superstiti – il capitano, i due giovani cileni, il vecchio marinaio Reton, brontolone ma di buon cuore e ancora ben saldo, malgrado l’età, e il giovane mozzo Emanuel – riescono a sbarcare sulla terraferma».[1]
Sbarcati quindi sulle coste dell’isola, i nostri protagonisti dovranno, come di consueto, superare tutti i pericoli e le difficoltà ambientali, non ultimi gli ostili indigeni assoldati dallo stesso Ramirez. La scoperta della tribù devota alla memoria del capitano De Belgrano – e in particolare, la presenza, in essa, di due validissimi alleati appartenenti alla tribù dei Krahoa, gli indigeni Matemate e Koturé – ristabilisce, infine, gli equilibri. A nulla, a questo punto, varranno i tentativi, da parte di Ramirez, di intralciare la ricerca del tesoro e di impadronirsi della bella Mina, di cui egli si è tristemente invaghito. Il sacrificio di Emanuel, che così si redime del suo tradimento, fa sì che il malvagio Ramirez possa essere punito e consente finalmente a Mina e a Pedro, dopo mille peripezie, di potere legittimamente impossessarsi del favoloso tesoro della Montagna Azzurra.

Si tratta di un romanzo lungo (uno dei più lunghi di Salgari) e di avvincente lettura, per la varietà e la molteplicità degli accadimenti che in esso si verificano, per la precisione delle descrizioni, per la capacità, da parte dell’autore, nel delineare anche psicologicamente le proprietà dei singoli protagonisti: Pedro, giovane coraggioso, intraprendente e puro; Mina, la caratteristica eroina salgariana, indomita e volitiva, priva di paura di fronte a qualsiasi genere di pericolo; il capitano José Ulloa, fidato e devoto alla memoria di Fernando De Belgrano, oltre che espertissimo nella pratica della navigazione; il vecchio Breton, una sorta di controcanto “comico” alla vicende drammatiche del romanzo (come era già stato, per esempio, Testa di Ferro ne Le pantere d’Algeri e come saranno, di lì a poco, Testa di Pietra e Piccolo Flocco nel ciclo dei “corsari delle Bermude”, per non dire degli ancora più celebri Carmaux e Wan Stiller, Mendoza e Barrejo nel ciclo dei “corsari del Mar dei Sargassi”); il perfido capitano Ramirez, avido e infido, il tradizionale antagonista che, alla fine della narrazione, pagherà con la vita il fio dei suoi peccati e delle sue malefatte; e, infine, il giovane mozzo Emanuel, il quale, nel corso del romanzo, rivela un cambiamento che lo trasforma, gradatamente, da un bieco traditore, strumento forse inconsapevole nelle mani di Ramirez, a un martire coraggioso ed eroico.

In occasione della recente ristampa pubblicata dalla casa editrice Fabbri nel 2004, Caterina Lombardo ha rilevato che «l’abilità di Emilio Salgari nel descrivere ambienti esotici trova una efficace rappresentazione nella grandiosa cerimonia del pilù-pilù, suggestiva danza notturna in onore del dio Tiki che si svolge all’interno di una meravigliosa caverna – scintillante per i riflessi prodotti da centinaia di stalattiti e stalagmiti e dalle incrostazioni vetrose delle pareti – e che avrebbe dovuto concludersi con Reton come vittima sacrificale da offrire in pasto ai partecipanti».[2] Giova però mettere in rilievo il tema fondamentale di questo romanzo (esplicitato già fin dal primo sostantivo del titolo), e cioè la ricerca di un “tesoro” (o comunque di un oggetto di immenso valore, come un diamante o una perla), tema classico del romanzo d’avventura, questo (si pensi al L’isola del tesoro di Stevenson o a Le miniere di re Salomone di Henry Rider Haggard), che fa la sua comparsa (con connotazioni più o meno insistite ma, in genere, sostanziali) in una decina di romanzi salgariani, da Duemila leghe sotto l’America (Milano, Guigoni, 1888) a La “montagna d’oro” (Palermo, Biondo, 1901, pubblicato con lo pseudonimo di cap. Guido Altieri), da La scimitarra di Budda (Milano, Treves, 1892) a Le caverne dei diamanti (Genova, Donath, 1899, libera riduzione de Le miniere di re Salomone, pubblicato con lo pseudonimo di Enrico Bertolini), da La “Montagna di luce” (Genova, Donath, 1902) a La perla sanguinosa (ivi, 1905),[3] per non parlare di un racconto fra i più belli (e forse non fra i più noti) dello scrittore veronese, ovvero Il tesoro delle caverne d’Ellora.[4]



Armando Bisanti



NOTE:

[1] C. Lombardo, Il tesoro dei Krahoa, in E. Salgari, Il tesoro della Montagna Azzurra, a cura di C. Lombardo, Milano, Fabbri, 2004, p. 5-6.

[2] Ivi, p. 6.

[3] Sul tema della ricerca del tesoro nei romanzi salgariani si intrattiene brevemente A. Lawson Lucas, La ricerca dell’ignoto. I romanzi d’avventura di Emilio Salgari, Firenze, Olschki, 2000, pp. 82-83.

[4] Il racconto in questione, pubblicato da Salgari nel 1905 con lo pseudonimo di cap. Guido Altieri nella collana «Piccole avventure di terra e di mare» dell’editore torinese Speirani, è spesso apparso con l’apocrifo titolo La statua di Visnù (per es., insieme a Un eroico messaggero, come n. 67 della serie «I racconti di avventure», pubblicata dall’editore Sonzogno di Milano fra il 1935 ed il 1941; e ancora, in tempi ben più recenti, in E. Salgari, Il mistero della foresta e altri racconti, introd. di E. Trevi, con un saggio di L. Tamburini, Torino, Einaudi, 2002, pp.). Col titolo corretto, esso è ora apparso in E. Salgari, I misteri dell’India, a cura di L. Belli, presentazione di C. D’Angelo, prefazione di F. Pozzo, Macerata, Simple, 2008, pp. 149-156.


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